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di GIUSEPPE BALDESSARRO
Ora è ufficiale, i gruppi consiliari della Calabria non danno conto a nessuno delle loro spese. Non hanno l’obbligo di elencare i costi sostenuti, non conservano fatture e pezze d’appoggio (ammesso che le abbiano), ma soprattutto nessuno controlla o può chiedere riscontri. Niente di niente. Nella città di “Bengodi” della Calabria, tutto si limita ad una “relazione” riepilogativa dei presidenti dei gruppi, nella quale si dice quanto è stato speso per le attività istituzionali e politiche dei gruppi. Una nota che va depositata entro il 31 marzo di ogni anno.
Ma di cui restano segreti i contenuti e persino le somme complessive. Perchè così stabilisce la legge in vigore. Non è un atto pubblico e in quanto tale non se ne trova traccia sui bollettini ufficiali. Ecco perchè, ad esempio, l’allora onorevole Mimmo Crea, ha potuto far transitare dal conto corrente intestato al Ccd centinaia di migliaia di euro alle casse di famiglia.
Soldi, tanti soldi, di cui nessuno ha mai chiesto spiegazione. Oltre 500 mila euro dal 2001 al 2005, che ora dopo l’inchiesta dei Pm Mario Andrigo e Marco Colamonaci, gli sono costati l’accusa di “peculato” e il sequestro del conto cointestato con la moglie. In Calabria è impossibile risalire a documenti ufficiali. Per due ragioni. La prima è legata al fatto che i gruppi non sono tenuti a presentare fatture e riscontri sulla spesa.
La seconda è che anche le scarne relazioni che depositano ai vertici amministrativi di Palazzo Campanella «non sono pubbliche». Il perchè lo spiegano gli stessi vertici del Consiglio regionale. «I gruppi sono autonomi. Uno status che gli consente di autogovernarsi amministrativamente, e tale autonomia non può essere messa in discussione da verifiche o quant’altro». Secondo quanto riferito «funziona così anche per i gruppi parlamentari e per le altre regioni. Così prevede la legge nazionale e calabrese». Di certo c’è solo che in passato si è arrivato a spendere fino a 15 milioni di euro annui e che c’erano una miriadi di monogruppi.
Ora, ad onor del vero, c’è un tetto di spesa massimo di complessivi 5 milioni di euro e, su proposta del Presidente Giuseppe Bova, i monogruppi esistono solo per le forze politiche rappresentante in Parlamento. Questa è la Calabria fotogra-fata nel 2009. Ma questa non è la regola in Italia. Basta spulciare le leggi delle altre regioni e fare qualche verifica telefonica. Prendiamo ad esempio la Toscana. Qui le regole sono altre. I Gruppi godono di autonomia gestionale, certo. Ma a fine anno presentano i propri bilanci corredati da tanto di fatture, contratti (eventualmente stipulati), scontrini e tutto il resto. Dopo di che, le carte vengono messe a disposizione della tesoreria del Consiglio regionale, che fa delle verifiche a campione. In più, gli stessi bilanci sono pubblici, chiunque li può richiedere e li si può trovare persino sul bollettino ufficiale della Regione. «Ci mancherebbe altro», afferma Francesco Pacini, funzionario del Pd regionale Toscano. Anzi, aggiunge: «stiamo facendo una legge che consenta a tutti di vedere le carte e non solo a quelli che hanno un interesse diretto». Di più? Si, perchè i bilanci e le pezze d’appoggio devono essere conservate per 5 anni per e verifiche. Lo stesso avviene nel Lazio dove tutto e pubblico e valutato dai revisori dei conti. Anche in questo caso la conferma arriva dal Pd e più esplicitamente dall’onorevole Alessio D’Amato, che è anche stato capogruppo: «Non so cosa succede da altre parti, ma nel Lazio ogni spesa va rendicontata». Bilanci al centesimo, come quelli della Lombardia e di altre regioni.
Ovviamente in alcuni casi si spende più di quanto non si faccia in Calabria (le dimensioni di queste regioni d’altra parte non sono le nostre), ma dei soldi pubblici resta traccia. Una chimera per la Calabria che tutela invece «l’autonomia dei gruppi». Come se autonomia e trasparenza fossero termini in contraddizione tra loro.

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