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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Fra un paio di giorni saranno celebrate, come del resto da numerosi anni, la festa di San Giuseppe e la festa del papà. La prima è saldamente presente nella cultura folklorica meridionale. Si pensi a titolo esemplificativo, come in occasione di tale festività si approntino, in Sicilia, precisamente nelle Madonie, nelle Egadi e in numerosi altri centri siciliani e di altre regioni italiane, delle “tavole dei Santi” cui partecipano da protagonisti i poveri. Tale distribuzione rituale di cibo è stata accuratamente descritta dalla letteratura demoantropologica; si pensi, ad esempio, ai lavori di Ottavio Cavalcanti Salvatore, D’Onofrio, Fatima Gallombardo, Gianfranca Ranisio, Mariano Meligrana e me stesso. Ne Il ponte di San Giacomo, frutto del nostro pluridecennale impegno di ricerca e di insegnamento nell’Università di Messina, abbiamo riportato una serie di dati demologici, sottolineando come i poveri vengano assunti attraverso tali rituali quali vicari dei morti, per cui è possibile renderli destinatari di azioni che non potrebbero essere rivolte ai propri cari scomparsi. In alcuni paesi delle Madonie, in onore di San Giuseppe vengono accesi il 19 marzo grandi falò e organizzati banchetti pubblici e privati a beneficio dei poveri detti mangiari di San Giuseppi. Questa usanza è particolarmente viva a Polizi, dove il banchetto un tempo veniva imbandito dentro la chiesa di SanGiovanni Battista. Analoghi banchetti e falò rituali si ritrovano, sempre per il 19 marzo, in San Marzano di San Giuseppe, in Puglia, dove i banchetti vengono approntati nelle diverse case e a essi vengono invitati i poveri. Accanto alla chiesa, poi,vengono allestiti banchetti di cibo cui accedono i forestieri, altra categoria di vicari dei morti.
In Orsomarso, Santa Domenica, Sangineto, Bonifati, Verbicaro, in Calabria, “si fa l’invito di S. Giuseppe. Ogni famiglia invita 3 poveri: Cristo, Maria e Giuseppe. I poveri si accaparrano, si prestano; accorrono dai paesi vicini. Prima, preghiera e i padroni servono a tavola; quelli saggiano e versano in un loro vaso, che riportano seco. Del pane lasciano un catollo [= pezzo] al padrone, che si serba qual farmaco, né si crede che muffi. Piatti di rito sono fagioli con maccheroni, ceci, lenticchie, baccalà in umido e fritto, zeppole, sarache, pepi, olive; e tutta questa roba va in quel vaso” (V. Padula). Anche a Laureana di Borrello, il 19 Marzo è il giorno dei conviti. Quasi in tutte le famiglie, per precedente voto o per divozione, s’imbandisce un pranzo a tre poveri, dei quali uno vecchio, l’altro bambino ed il terzo donna, che simboleggiano i componenti della Sacra Famiglia, ed è servito dalla padrona di casa o da colui o colei, che ha fatto il voto. Nel pranzo di quel giorno sono di prammatica la pasta coi ceci e le zeppole al miele. I poveri dopo aver pranzato, portano a casa un grosso tondo pieno di cibo per farne parte ai loro parenti” (G. B. Marzano). Nei paesi delle Serre calabresi, “la giornata S. Giuseppe vedeva tutti i più poveri contemporaneamente, andare in giro e bussare porta per porta a chiedere la vutateza di S. Giuseppe”. Vito Teti cui si deve la notazione precedente, riporta anche un brano di un’intervista nella quale un informatore ricorda: “ogni famiglia faceva le ‘vucatezi’ con i ceci e i poveri giravano all’elemosina […], Da S. Nicola la gente veniva a processione per chiedere la ‘vucateza’ di S. Giuseppe […]. I ceci […] di S. Giuseppe si mangiano con le rape o con altre verdure ma certuni non avevano nemmeno olio per condire. C’erano i poveri assai che giravano per una ‘vucateza’ e per un po’ d’olio per condire qualcosa”. Per quanto riguarda, poi, la festa del papà, val la pena sottolineare che questa non si discosta sostanzialmente dalla festa della mamma, da quella degli innamorati, da quella dei nonni, da quella dell’infanzia, e via festeggiando. Tutte presentate come occasione di una doverosa testimonianza dei sentimenti verso le persone care, la cui intensità viene misurata in maniera direttamente proporzionale al costo del regalo proposto-imposto. Tanto più costoso sarà il regalo tanto più indiscutibile dovrà essere ritenuto l’affetto del donatore. Feste commerciali, dunque, come festa commerciale è progressivamente divenuto il Natale, che si configura sempre più come sistematica rapina della tredicesima. Eppure, una contrapposizione tra la festa tradizionale di San Giuseppe, che ha come abbiamo visto salde radici nella cultura folklorica, e la neofesta del papà, connotata così fortemente dalle esigenze della commercializzazione e del consumo, pur legittima a livello storico e antropologico non è del tutto convincente. Noi siamo il nostro passato, ma non lo siamo esclusivamente; siamo anche il nostro presente. E nel nostro presente vi sono anche le neofeste, l’ideologia del consumo, la promozione pubblicitaria, le reificazione dei sentimenti. Nessuno di noi può ritenersi al di fuori di tutto ciò; se mio figlio, per quanto adulto, trascurerà la festa del papà, resterò male per tale dimenticanza; se ne terrà conto, tale attenzione mi farà piacere. Non siamo soltanto i nostri convincimenti critici e dal mondo che ci circonda, quale che sia il giudizio che ne vogliamo dare, siamo comunque condizionati.

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