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di MARIO LUIGI
La sera del 2 settembre 2008 mio figlio Ernesto e altri due amici sono stati
investiti. Viaggiavano in automobile, nei pressi di Campora San Giovanni (CS), quando sono stati tamponati da un Fiat Fiorino. L’impatto è stato violentissimo,
tanto che sul posto sono intervenuti carabinieri, vigili del fuoco, vigili urbani e centinaia di persone. L’amico di mio figlio, Francesco Macchione, a soli 22 anni è morto, lasciando nella disperazione i familiari, gli amici, nonché tutta la comunità di Nocera Terinese (Catanzaro), dove abitava. Francesco era un ragazzo che amava la vita, era maestro di musica, e insegnava a condividere la sua passione, la fisarmonica, a tanti bambini.
Grazie all’estremo gesto di solidarietà dei suoi familiari che hanno donato i suoi organi, Francesco ha dato l’ultimo regalo alla vita, continuando a vivere ancora in tanti giovani della sua stessa età. Subito dopo l’investimento, mio figlio Ernesto, soccorso immediatamente, è stato trasportato d’urgenza presso il Pronto soccorso (si fa per dire) di Paola. E’ stato proprio qui che, per la prima volta nella mia vita, ho compreso il disastro totale della sanità calabrese. Hanno semplicemente parcheggiato mio figlio in una stanza angusta e sporca, dalle ore 23 circa fino alle 3,30 del mattino senza prestargli il minimo soccorso.
Mio figlio, che versava in condizioni disperate, m’implorava di portarlo via da lì, dalla Calabria, da questa terra bella e maledetta, cosciente, come me, che si può morire anche di appendicite. Chiedevo al “dottore” perché mio figlio dovesse soffrire così tanto in quell’ospedale e non poteva essere trasferito altrove.
Lui si “giustificava” dicendomi che non potevano trasportarlo perché mancava l’anestesista e dovevano rispettare il “protocollo”.
L’anestesista è arrivato dopo ben 4 ore di attesa spasmodica in quell’inferno e solo allora è stato disposto il trasferimento all’Ospedale “L’Annunziata” di Cosenza. Ed è qui che ho trovato un po’ di speranza. In quest’ospedale ho incontrato un’équipe di “Angeli”, erano i dottori della sala operatoria che hanno salvato mio figlio, anzi lo hanno tirato per i capelli alla vita. Ho trovato tanta professionalità e tanta eccellenza nelle mani del dottore Enrico Napolitano, chirurgo del reparto di chirurgia d’urgenza, e dei suoi colleghi.
Le parole in questo caso forse non sono sufficienti per descrivere tutta la gratitudine nei loro confronti. Quando ho incontrato il dottore Napolitano lui mi scherniva come a dire: “Ho fatto solo il mio dovere”, ma io so che è il lavoro silenzioso e umile di tanti medici che, pur lavorando in ambienti “ostili”, riescono a salvare tante vite umane. A tutti loro devo molto, devo la vita di mio figlio. Ritengo un atto doveroso ringraziare di cuore i dottori della sala di rianimazione, l’équipe ortopedica e tutto il personale medico e paramedico che con tanta cura, affetto e professionalità hanno assistito mio figlio. Sono stati eccezionali. In una stessa vicenda abbiamo toccato con mano l’inadeguatezza della sanità, ma fortunatamente anche l’efficienza di chi ci lavora, nonostante tutto.
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