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Antonino Rodà

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Segretario Fillea-Cgil a Genova, nativo di Melito, Antonino Rodà da migrante diceva: «Io sono uno di loro»


“Non c’è quasi nessuna differenza tra un marocchino di oggi e uno come me nel 1950. Colore della pelle compreso…”. Antonino Rodà mi diceva queste cose in un giorno di primavera del 1991 per un’intervista sulla storia dell’edilizia a Genova. E sorrideva indicando col dito la carnagione scura e i capelli nerissimi. Era un uomo importante, allora, Antonino; segretario della Fillea-Cgil genovese (edili), a capo di un grande sindacato, ogni giorno alle prese con i problemi dei cantieri: lavoro in nero, sicurezza e tanti migranti che arrivavano e venivano sfruttati quasi come schiavi. Rodà trattava da pari a pari con i ricchi imprenditori liguri o con i capi delle imprese d’appalto delle costruzioni e sapeva costringerli a rientrare nella legge. Sui migranti, poi, ci metteva un impegno e una tigna particolari.

“Perché io sono stato come loro. Anzi, uno di loro… In Francia, quando avevo 18 anni…”. La sua storia mi è venuta in mente leggendo e rileggendo la poesia di Francesco Costabile sui migranti calabresi. Parole che ti entrano dentro, suoni e ritmi feroci di vicende terribili, bellissime e tragiche. Antonino era uno di quelli di cui parla il poeta: “Ce ne andiamo con dieci centimetri di terra secca sotto le scarpe, con mani dure, con rabbia, con niente…”.
Era nato a Melito Porto Salvo il primo settembre 1932, terzo di tre maschi. Il padre, Fioravante, faceva il contadino in proprio, la madre, Maria Stella, era casalinga. Entrambi, come a volte succede nei paesi, facevano di cognome Rodà. Antonino frequenta la scuola fino alla quinta elementare.

Poi va anche lui a faticare nei campi: “Non c’era altro da fare a Melito… Qualche anno dopo, mio fratello andò a lavorare in Francia nella zona di Montpellier, al compimento dei 18 anni, decisi di raggiungerlo”. Antonino aspettava la cartolina del servizio militare che non arrivava. Era quindi senza passaporto ma voleva comunque partire. Così decide di seguire la strada seguita da molti altri: espatriare clandestinamente e raggiungere il fratello. “Penso sia un po’ lo stesso ragionamento che fanno i migranti di oggi: sei disperato, non sai cosa fare. Sali su una barca o ti stringi ad altri nel cassone di un camion frigorifero…”.

Antonino prende un treno e raggiunge Aosta. Chiede in giro, gli consigliano di andare alla Thuile dove c’è gente che potrà aiutarlo. Trova la persona giusta, pattuisce una cifra pari a un buon stipendio di allora e aspetta. Lo spallone tergiversa, lo fa attendere… ogni giorno un appuntamento che va a vuoto o perché piove o perché c’è in giro la polizia. Antonino, a un certo punto, prende l’uomo per il collo: “Basta! Adesso mi hai rotto. Portami di là”. Quello un po’ si spaventa e si parte.

La camminata è lunga ma neppure troppo difficile. Lo spallone davanti e Antonino dietro: “Arrivati in cima al valico, mi indica delle luci nella valle francese: ‘Quella è Borgo San Maurizio – dice . – Da lì puoi cercare un treno per Montpellier. Fai attenzione. Io e te non ci siamo mai visti”.
Antonino scende per valli scoscese, raggiunge il paese, prende un treno e parte. A Montpellier suo fratello lo riceve e lo ospita. Lo aiuta anche a trovare un lavoro in un vigneto. Lo assumono al nero e gli dicono di fare attenzione a non uscire mai dai viottoli di campagna. Sulla strada nazionale ci sono i gendarmi che cercano i migranti non in regola come lui.

Un giorno, però, Antonino sbaglia strada e i gendarmi lo prendono. Niente documenti: sono manette e prigione. Venti giorni in isolamento, una decina in cella con altri. Poi il processo: condannato a 15 giorni di carcere. Lo mandano a Marsiglia, lo chiudono per qualche settimana in un centro che assomiglia molto ai CARA di oggi. Poi l’espulsione. Per qualche giorno Antonino accarezza l’idea di arruolarsi nella Legione Straniera. Un volontario dell’Azione Cattolica lo convince a lasciar perdere. Rodà torna in Italia e in Calabria.
Ripartirà anni dopo (un’altra migrazione) per Genova. Diventerà carpentiere provetto, lavorerà nell’industria metalmeccanica e nell’edilizia. Poi, il partito comunista e il sindacato lo porteranno all’esperienza della Fillea Cgil.
In Fillea, Antonino è diventato grande e molto saggio. Se n’è andato nel 2021 durante il Covid a quasi novant’anni.

Di lui mi resta l’impressione di una splendida persona e queste parole: “La storia gira, ma qualcuno subisce sempre. Come è successo a me e come succede a questi giovani africani che sono sfruttati esattamente come lo ero io, giovane calabrese. Per questo mi arrabbio quando vedo come li trattano, per questo divento matto quando mi capita di trovarli nei nostri modernissimi cantieri pagati 50 mila lire al giorno, senza libretto, senza nulla osta, sfruttati finché c’è lavoro, cacciati quando il cantiere chiude”.
E credo che Costabile pensasse a uno come Antonino Rodà quando scriveva: “Troppo, troppo tempo a restarcene zitti quando bisognava parlare, basta”.

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