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La conferenza stampa al Museo di Capocolonna

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Avvenuta la restituzione al museo di Capocolonna a Crotone importanti reperti archeologici dopo i sequestri in due inchieste


CROTONE – «Grazie all’eccezionale attività svolta dai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza, sono stati restituiti al territorio reperti che erano stati sottratti per soddisfare il gusto personale di pochi potenti». Sta in questa affermazione del generale di divisione Pietro Salsano, comandante regionale dell’Arma, il senso di quello che è accaduto ieri mattina al Museo archeologico nazionale di Capocolonna, dove sono stati consegnati dai carabinieri 83 reperti sequestrati ai trafficanti nell’ambito di due distinte inchieste coordinate dalla Procura di Crotone. Non a caso il procuratore Giuseppe Capoccia ha sottolineato che «questo è un caso in cui il processo penale porta a risultati concreti».

Lanciando un messaggio di legalità a una platea di studenti, il procuratore ha messo bene in luce come, grazie ad una complessa attività che ha visto impegnati l’autorità giudiziaria italiana e quelle straniere e gli archeologi della Soprintendenza, sia stato possibile “arricchire” il museo. «Siete voi i primi custodi di questo patrimonio» ha detto, rivolgendosi ai ragazzi, la soprintendente archeologica per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, Stefania Argenti.

La prima attività d’indagine, che ha consentito il recupero di circa un miglio di reperti, è quella che nel 2019 portò all’operazione Achei (il processo che ne è scaturito è ancora pendente dinanzi al Tribunale penale di Crotone), condotta contro una presunta organizzazione transnazionale con ramificazioni in Gran Bretagna, Francia, Germania e Serbia, come ha ricordato il capitano Giacomo Geloso, comandante del Ntpc di Cosenza. La seconda operazione è quella che nell’agosto 2023 portò al sequestro di vari reperti ma anche di un cannone risalente al XVI secolo, utilizzato come ornamento nella corte di un’abitazione privata in un’area adiacente al Parco archeologico dopo essere stato, presumibilmente, prelevato dai fondali marini di Capocolonna.

L’archeologo Alfredo Ruga ha analizzato, dinanzi ai ragazzi incantati, alcuni dei reperti, databili tra l’età del ferro e l’età romana, che «presi singolarmente sembrano pezzi insignificanti ma in realtà sono tasselli di storia». Come un frammento di lastra di rivestimento in terracotta con decorazione a palmetta e databile al V secolo A. C. che potrebbe essere giustapposta a quelle del tempio di Hera Lacinia. Di età greca è anche un coppo di colmo simile alle tegole conservate nel Museo di Capo Colonna che coprivano il santuario di Hera Lacinia, oggetto di spoliazione in età romana. Interessante una tegola in marmo dell’isola di Paros molto simile a quelle che per la loro brillantezza venivano scelte per segnalare che quella prospiciente al parco di Capocolonna era una zona di buona navigazione.

Ma ci sono anche una punta di lancia in bronzo, simile ad altre testimonianze di presenze indigene conservate a Capocolonna, e monete dell’antica Thurio, di età romana e bizantina.
Insomma, una complessa opera di restituzione che, dopo la catalogazione dei reperti, alcuni dei quali devono ancora essere studiati a fondo (come quella testa di donna del periodo etrusco in perfetto stato di conservazione della quale non si conosce ancora il luogo di rinvenimento), consentirà di portare alla completa fruibilità testimonianze del passato che ci raccontano la nostra storia.

L’amarezza, però, resta. Il danno fatto dai trafficanti, diretto ad alimentare il mercato nero dei reperti, è stato non solo al patrimonio dello Stato ma anche di tipo culturale e scientifico. Ora si spera che i reperti non passino dagli scantinati del Tribunale a quelli del Museo restando altrettanto tempo negli scatoloni una volta giunti nella nuova destinazione.

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