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Vince a mani basse il Pd in Emilia Romagna, il centrodestra perde l’Umbria: per Salvini e il M5s il voto segna la loro disfatta
Finisce 2 a 1 per il centrosinistra. Il centrodestra perde l’Umbria, il centrosinistra conquista a mani basse l’Emilia Romagna. E al Nazareno adesso si mangiano ancora di più le mani per quello che è successo un mese fa in Liguria. Poteva essere 3 a zero per il centrosinistra. Nel Pd, che in Emilia Romagna ha sfiorato il 40 per cento e sta cannibalizzando le altre forze alleate, ora il pensiero è uno solo: mai più un diktat 5 stelle. Che anche in queste due elezioni tocca percentuali ad una cifra, sotto il 5 per cento.
Ci sono tante sfide e altrettanti termometri in questo turno elettorale nelle due regioni Emilia Romagna e Umbria che chiude il ciclo dei tre appuntamenti autunnali: ovviamente la tenuta del centrodestra rispetto a quella del cantiere del centrosinistra; l’importanza strategica del centro, di Italia viva e Azione nell’ambito del centrosinistra; la leadership delle due leader, Giorgia Meloni ed Elly Schlein nelle rispettive metà campo; il peso dei singoli partiti per misurare le distanze e soprattutto il potere contrattuale quando poi si va trattare sui dossier che contano, dalla legge di bilancio alle riforme.
Possiamo già dire, al di là del successo clamoroso del Pd e della parziale tenuta di Fratelli d’Italia, che il voto sia in Emilia Romagna che in Umbria segna la disfatta di Salvini, della Lega e dei Cinque Stelle. Registra l’importanza del centro nella coalizione. Decreta la crisi della stagione dei fenomeni acchiappavoti. Il Vannacci umbro, l’imprenditore e sindaco di Terni Stefano Bandecchi, non ha saputo fare la differenza.
L’uomo noto per parlare delle donne come di “prede” e dei voti elettorali come fossero un chilo di pane («Comunisti di merda, io i voti me li compro» ha detto giusto una settimana fa) si è fermato sotto il 2 per cento, sotto Noi moderati. E non ha avuto il ruolo di traino che Forza Italia, quando ha insistito per averlo in coalizione, pensava potesse avere.
La fotografia che parla più chiaro è quella dell’Emilia Romagna. È anche quella che fornisce maggiori e preziose istruzioni per l’uso alla segretaria Elly Schlein. Ha stravinto il modello De Pascale, il neo governatore allevato alla scuola dell’ex Bonaccini e di un Pd inclusivo e progressista che vuole la gamba del centro forte tanto quanto quella di sinistra.
L’immagine che conta, che traccia la linea e dice tutto, è quella di Michele De Pascale che alle 17 arriva sul palco del comitato per celebrare la vittoria con il padre putativo Stefano Bonaccini e la segretaria del Pd Elly Schlein. Compaiono tipo “trinità”, forti di un bottino per la coalizione pari al 56%. Che stacca di quindici lunghezze l’avversaria Ugolini e di un “tesoro” di partito pari quasi al 40%. Un gradimento di lista che dovrebbe blindare una volta per tutte il ruolo del Pd come azionista di maggioranza del centrosinistra.
«Grazie a tutti – ha detto De Pascale – Grazie a questa alleanza molto grande ma anche molto coesa». Parole preziose, che pesano, che segnano un impegno netto, chiaro: De Pascale, ad esempio, ha voluto i renziani nella sua lista e non ha accettato diktat né censure, come successe in Liguria alla vigilia della chiusura delle liste.
Il Movimento 5 Stelle si attesta intorno al 4,3%, un dato non molto dissimile da quello di cinque anni fa. Questo vale il Movimento nella Regione dove è nato e poi esploso nel 2013.
Il voto in Emilia Romagna insegna che aver aizzato le “camicie nere” e puntato il dito contro le “zecche rosse e comuniste dei centri sociali” non ha pagato. Così come non ha pagato aver strumentalizzato la ricostruzione nel post di ciascuna alluvione. L’estremismo non paga in questa regione – e forse neppure in Italia – e alla fine i cortei di Casa Pound, con quello che ne è seguito, sono paragonabili quattro anni dopo alla citofonata che Salvini fece a favor di telecamere a casa del presunto spacciatore (poi arrestato).
I toni “accesi” e quotidiani del segretario della Lega su ogni dossier – giustizia, immigrazione, autonomia, codice stradale, gestazione per altri e chi più ne ha più ne metta – dovevano, secondo le previsioni di Salvini, aiutare la ripartenza e il recupero della Lega rispetto a Fratelli d’Italia e mettere “la giusta distanza” rispetto a Forza Italia. Il vento di Trump dagli Stati Uniti, il nuovo ruolo di Orban nell’Unione europea e quindi della famiglia dei Patrioti, la crisi della commissione von der Leyen 2 e la crescita delle destre sue amiche in Europa: Salvini si è spesso confidato con i suoi durante questa campagna elettorale un po’ schiacciata dal voto americano che era il momento di spingere «per recuperare»”.
Spingere su alcuni temi come giustizia e immigrazione, che poi sono gli stessi di Trump. Gli è andata male. La Lega potrebbe addirittura finire sotto il 6% e, senza fare paragoni spietati con il 2019 (Salvini toccò il 31%) che è un’era geologica fa, basti qui dire che Forza Italia è sopra il 6%, cinque anni fa era al 2,7%, e non solo a causa dell’effetto-Ugolini, la candidata centrista, ex sottosegretaria nel governo Monti, voluta da Tajani.
Meloni sapeva già tutto questo e non è un caso che abbia disertato il comizio finale a Bologna lunedì scorso. Decise di parlare collegandosi da palazzo Chigi. L’intervento ruotò sul fatto che «finalmente questa regione congelata e messa in freezer da quarant’anni di governi di sinistra, aveva l’occasione di riscattarsi e ripartire». Metafora infelice, vista che se c’è una regione che funziona, fattura e produce Pil questa è l’Emilia Romagna.
La premier è in Brasile per il G20, l’ultimo con Biden. Il primo vertice dopo che gli Usa hanno dato il via libera a Kiev per usare i missili in territorio russo. È una nuova fase della guerra, fase assai pericolosa perché nessuno può perdere, né le democrazie né la democratura di Putin. E Trump è troppo concentrato su se stesso per avere una visione d’insieme e di lungo periodo.
Il piccolo voto regionale italiano è comunque per la premier motivo di importanti riflessioni. Anzi, preoccupazioni. Fratelli d’Italia tiene, ma perde voti rispetto anche alle Europee, ed è chiaro che se non c’è la sua faccia in campo il potere di attrazione del partito è assai ridotto. Gli alleati sono troppo deboli, e in una coalizione questo sbilanciamento danneggia gli equilibri. Salvini ha sbagliato tutti i calcoli: non solo non c’è stato il recupero sognato, ma è andata addirittura peggio del previsto.
Su cosa mai potrà sfogare adesso la sua ansia di rivalsa? E che danni collaterali possono fare alla coalizione le sue campagne? La sua chat, in genere sempre molto attiva, ieri ha taciuto per tutto il pomeriggio: Donatella Tesei in Umbria era la sua candidata, l’ha voluta confermare a tutti i costi perché nel 2019 l’allora senatrice consegnò a Salvini la prima regione rossa. Era novembre, tre mesi prima c’era stato il Papeete ed era nato il governo giallorosso. Anche simbolicamente la caduta di Tesei è un pessimo auspicio. La fine di un’epoca?
Ha vinto invece Stefania Proietti, la sindaca di Assisi al cui portone sono andati a bussare tutti i leader del centrosinistra, anche Renzi e Calenda, e lei ha detto sì avvisando che non c’era spazio per obiezioni. Meloni è a Rio al G20, il suo consenso è sempre alto ma ha molto sui cui riflettere. Soprattutto sulla Lega. Schlein tornerà oggi a Roma e adesso ha molto chiaro quali sono i confini dell’alleanza di centrosinistra per costruire un cartello di opposizione. Giuseppe Conte ha il congresso fondativo dei 5 Stelle. Ma non è più fondamentale. Molto di più lo sarà riconquistare quel 45% che non è andato a votare. L’astensione resta il partito più “forte”. Cerca nuova offerta politica? Oppure non gli basta questa offerta politica?
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