Il governatore della Campania Vincenzo De Luca
3 minuti per la letturaTutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Allora, prendiamone nel gruppo uno a caso. Ci rivolgiamo al Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e mettiamo tutto per iscritto a futura memoria. Non sappiamo con quale lanciafiamme sta facendo strage di virus contagiosi e non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerle che ha dimostrato polso e testa nel contrastare questo brutto mostro.
Ora, però, ci dobbiamo occupare dei morti di debiti e di fame non più di quelli da Coronavirus. Le facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave, stare zitti oggi di fronte al nuovo scempio significa accettare in silenzio la sparizione del Mezzogiorno e di quel che resta della sua economia. La fervida mente dei burocrati del Tesoro ha approfittato della debolezza politica del ministro “politico” Gualtieri e ha fabbricato il più poderoso “decreto di illiquidità” concepito da un Paese occidentale alle prese con la Grande Depressione Mondiale. Se per avere 25 mila euro ti devi fermare davanti a 12 stazioni della morte e non vedi il becco di un quattrino, per i finanziamenti fino a 800 mila euro e poi fino a 5 milioni non ci sono neppure le istruzioni per chiederli. Il tasso di fragilità delle imprese meridionali è quattro volte superiore a quello delle imprese del Nord. Non hanno avuto nulla e quando arriverà qualcosina avranno già chiuso per sempre.
A fronte di tutto ciò si arriva a concepire lo scempio di una dote straordinaria di 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti – a sostegno dell’economia l’anno scorso ha mobilitato 36,4 miliardi di risorse – per prendere partecipazioni temporanee nel capitale di imprese private ovviamente in crisi ovviamente al Nord. Basta prendersi in giro. La Cassa Depositi e Prestiti tedesca (Kfw) è il braccio armato fuori bilancio della Cancelleria Merkel e ha inondato di liquidità le piccole e medie imprese del suo Paese con passaggi bancari velocissimi. Finanzia grandi infrastrutture e grandi eccellenze tecnologiche.
Noi alla nostra Cdp non chiediamo di inondare di liquidità le imprese italiane, a partire da quelle meridionali più vicine al default, ma la vogliamo azionista di Stato delle imprese decotte del Nord per la bellezza di 50 miliardi. Proprio quelli che servirebbero per l’unificazione infrastrutturale del Paese tra Nord e Sud a partire dai treni veloci.
Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando Governatore De Luca – lo dico provocatoriamente a lei ma vale per tutti i suoi colleghi e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar. Gli acquisti della Banca Centrale Europea consentono a lei e all’allegra brigata di distrarsi ma non così a lungo. Qui gli acquisti sono poderosi non illimitati come in America, in Giappone, in Inghilterra e, per di più, la Lagarde a differenza di Draghi non sa parlare ai mercati. Consiglierei a tutti da Roma in giù di svegliarsi e di farsi sentire. Se questo tempo in più che il governo si è preso servirà per fare meglio, allora questo tempo è benedetto. Se servirà, complice l’imperdonabile silenzio del Mezzogiorno, a partorire il solito topolino, che si preoccupa di tenere in vita (male) solo un pezzo di Paese, allora sarà la fine del mondo. Errare è umano. Perseverare nell’errore è diabolico. Produce effetti non più controllabili.
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LETTERAPERTA ALL’INFORMAZIONE MERIDIONALISTA
Egregio Direttore,
la rabbia l’abbiamo trattenuta fintanto che non abbiamo accertato che la notizia non fosse ‘fake’. E purtroppo non lo era! La conferma nel trafiletto su Il Quotidiano – forse l’unico che da almeno un anno e quotidianamente interviene in merito, che riporta già nel titolo il severo giudizio del lucano Gianni Pittella: “Provocatorio voler sottrarre i fondi al Sud”.
La notizia. E’ stata formulata, dal Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica di Palazzo Chigi – di cui è responsabile il sottosegretario 5Stelle Mario Turco eletto in quel di Taranto, la proposta “tecnica” di sospendere gli effetti della legge n.18 del 27 febbraio del 2017 che impone allo Stato di destinare alle regioni del Sud il 34% delle risorse ordinarie in ragione della popolazione; mai attivata, sottraendo al Mezzogiorno fino a oggi ben 21 miliardi. E di sottrargli, ancora, i fondi europei destinati alla coesione – quelli futuri e quelli che avanzano dal quadriennio 2017 – 2010. Tutto ciò, per consentire la ripartenza delle imprese settentrionali in crisi per gli effetti del coronavirus.
“Mezzogiorno: traditi e mazziati”. Titolava così il Rapporto Eurispes 2020 presentato il 30 gennaio scorso, nel capitolo delle considerazioni del presidente dell’Istituto, Gian Maria Fara, dedicato alla situazione del Sud. L’analisi prendeva spunto da un dato inquietante. «Se della spesa pubblica totale si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla popolazione, emerge che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma sottratta ammonta a più di 840 miliardi di euro netti». E 840 miliardi di euro in più fanno molta differenza. Fara rincara la dose: «Il Sud attende ancora giustizia e un’autocritica collettiva da parte di chi ha alimentato questa deriva». Ulteriori ammontar di risorse, poi, al Nord giungono sotto forma di servizi sanitari, perché molte persone dal Sud vanno a curarsi negli ospedali del Nord, e per il costo della formazione dei giovani meridionali laureati che emigrano al Nord. Rifacendo i conti, sottolinea Eurispes, a fronte di una cifra di circa 45 miliardi di trasferimenti che ogni anno si è spostata da Nord a Sud, ve ne sono stati altri 70,5 pervenuti al Nord, compiendo un percorso inverso. A ciò si aggiunga che i prestiti, la raccolta e gli sportelli bancari presenti al Sud sono al 90% di proprietà di banche settentrionali, che raccolgono al Sud e impiegano al Nord. Se davvero le decisioni politiche portassero all’annullamento dei trasferimenti da Nord a Sud «l’economia settentrionale entrerebbe in una recessione senza precedenti, causando un danno irreversibile all’intero modello di sviluppo Italiano».
«Se l’Italia superasse le sue miopi illusioni di poter procedere a pezzi semi-separati tornando a considerarsi Paese e sviluppando anche il Sud, diventerebbe l’area più competitiva d’Europa. Ma purtroppo le classi dirigenti italiane sembrano ignorarlo», conclude amaramente il direttore dell’Eurispes.
Noi saremmo, quindi, come riconosce anche il direttore di TG Norba, i veri finanziatori del Nord rinunciando, per decreto, ai nostri risparmi. Ma, se c’è un territorio che deve ripartire, questo è proprio il Mezzogiorno!
Sostiene, ad esempio, Gianfranco Viesti: “Al momento le differenze di impatto della pandemia sull’economia (industria e settore terziario, nord e sud) non sono ancora chiare. Nelle crisi economiche del 1973, 1993 e 2008, che non avevano l’estensione e la gravità di quella provocata dal Covid-19, il terziario interno riuscì ad assorbire in termini di occupazione e di reddito il calo dell’industria. Stavolta, invece, anche il terziario è colpito direttamente dalla crisi e non può fare da spugna alle perdite dell’industria”, Lo si vede drammaticamente nel settore turistico, in quello del cibo di qualità.
Insomma, un disastro! Che non può essere subito, che non può avere l’avallo dai produttori del Sud. Che non può essere sopportato da chi ha curato i territori, le comunità, quel che resta delle produzioni di qualità e di cura tenute in piedi coi denti. Nell’attesa che – finalmente – arrivi il momento della consapevolezza circa la condizione meridionale.
Questo momento sembrava miracolosamente essere arrivato, con le proposte del ministro Provenzano, oggi – questo è il rischio concreto – senza più strumenti e risorse, sottratte in nome di un’ingiusta ‘solidarietà’!
Ma poi, chi l’ha stabilito che non ci sono le risorse finanziarie per salvare e rilanciare tutto il Paese?
Le forze politiche, in realtà, prima di chiedere all’Unione Europea una interpretazione più flessibile dei trattati di Bruxelles o una ra¬dicale loro revisione come condizione per restare nell’Unione Europea, si dovrebbero porre apertamente, senza infingimenti, una domanda di fondo: Quale nuovo sviluppo e quale conseguente politica degli interventi si potrebbe immaginare per il Paese? E quale altra ripartenza, se non proprio da questa crisi?
Occorre riconoscere una verità: il declino nazionale è iniziato molto prima della pandemia. E’ iniziato molto prima dell’adesione all’Unione Europea, già dalla metà degli anni Settanta, con il profondo cambiamento verificatosi a scala mondiale, cioè con la fine del fordismo e l’emergere di condizioni strutturali che esigevano una nuova offerta, differenziata e personalizzata.
Da allora, il gruppo dirigente è stato sempre meno all’altezza della situazione: confidando provincialisticamente, fino all’autolesionismo, nell’ideologia neoliberista, non si è preoccupato – al contrario di quanto avveniva nei più importati Paesi del centro – di dare un nuovo indirizzo alla struttura produttiva e di consentirle di conquistarsi un ruolo più autonomo e più for¬te nella divisione internazionale del lavoro.
L’Italia avrebbe ancora una grande opportunità – ce lo ripetono economisti, sociologi industriali, grandi meridionalisti: privilegiare la personalizzazione ex post del suo made in Italy e avviare una riconfigurazione della struttura produttiva, puntando, nell’ambito dell’industria, sulla meccanica strumentale e, nell’ambito del terziario, sui trasporti e sulla logistica; nello stesso tempo, fare del Mezzogiorno il luogo d’innesco del nuovo sviluppo.
I porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone, se fossero riconosciuti nel ruolo mondiale che compete loro, sarebbero una leva formidabile per realizzare tale nuova prospettiva.
In quanto esclusiva economia esterna, consentirebbero di pro¬muovere nel Sud ciò che nel passato non era mai stato possibile realizzare: un ampio processo d’industrializzazione.
Sarebbe però indispensabile creare un bacino di produzione adeguato alle esigenze dei prodotti della personalizzazione ex post, cioè non solo autopropulsivo ma anche autocentrato, perseguendo due obiettivi:.
1. Da un lato, occorrerebbe una nuova organizzazione aziendale, rete stretta, cioè piccole aggregazioni aziendali, costituite da imprese specializzate in produzioni complementari, in grado di esaltare la peculiarità dei loro requisiti, ma anche, grazie ad adeguate economie di scala, di acquisire indispensabili, strategiche, funzioni aziendali: il distretto industriale!
2. Da un altro lato, occorrerebbe un nuovo assetto territoriale che ne consentisse l’affermazione, ovvero che fosse caratterizzato da due requisiti: un’accessibilità adatta a garantire relazioni altamente interattive, faccia a faccia, radicate nel territorio, con frequentazioni personali giornaliere; un ambiente messo in sicurezza e appagante, in grado di tutelare le risorse naturali e valorizzare i saperi produttivi storicamente acquisiti, consentendo agli abitanti un profondo legame con i loro luoghi e piena co¬scienza della loro identità culturale: il progetto locale di sviluppo!
Il governo Conte, con la firma del Memorandum proposto dal¬la Cina (la “via della seta“), avrebbe dovuto assumere queste proposte – ormai arcinote nelle discussioni sul Mezzogiorno – come il suo programma sulle infrastrutture, sul sistema produttivo e sulla collocazione geopolitica nel Mediterraneo e nel mondo.
Che fine ha fatto quel Memorandum? E’ veramente possibile ignorare il ruolo esclusivo e totalizzante che i porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone potrebbero assumere nell’emisfero orientale, con¬sentendo all’Italia di diventare leader mondiale nel settore dei trasporti e della logistica e attuare un importante ampliamento del mix settoriale della sua struttura produttiva, indispensabile per una più alta produttività?
Il nuovo processo di sviluppo implicherebbe, ovviamente, un investimento nel territorio molto ingente, eccezionale. Ma – anche se tutte le forze politiche sembrano ignorarlo – qualsiasi programma che si proponesse il rilancio del Paese richiederebbe comunque uno sforzo finanziario di grandissima entità.
Solo per il Sud, si avrebbe bisogno di una quantità di risorse finanziarie molto superiore non solo alle risorse già stanziate e disponibili, ma in generale, a quelle che il mercato tradizionale, anche senza il vincolo dei trattati dell’Unione Europea, sarebbe normalmente in grado di permettere.
Gli scettici diranno che tale ipotesi è irrealizzabile perché non vi sono i soldi. La risposta è che il mercato alternativo (parte di un’ipotesi di sviluppo che muove da una visione strutturale, per la quale il lavoro si crea direttamente individuando una fondamentale strategia di sviluppo che orienti le forze produttive, e non indirettamente facendo crescere l’offerta o la domanda mediante incentivi entro il libero mercato), poiché scavalcherebbe i limiti del mercato tradizionale permettendo di operare fuori dalla concorrenza, aprirebbe a possibilità finanziarie molto rilevanti, insperate, i cui flussi finanziari non rientrerebbero nel perimetro contabile dello Stato. E comunque, in aggiunta al mercato alternativo possono essere prese in considerazione altre ipotesi che passano per una riforma della Procedura sugli Squilibri Macroeconomici fra Paesi in senso keynesiano.
Grazie ad esso sarebbe possibile mobilitare tutte le forze produttive meridionali, anche quelle marginali e del sottoproletariato, suscitando in chiunque la speranza e l’orgoglio di un nuovo futuro contro la rassegnazione a una vita di povertà o di umiliante assistenzialismo o, peggio, di corruzione e di assoggettamento alle organizzazioni criminali, senza possibilità di emancipazione.
Allora, concludendo ci chiediamo noi dell’Associazione Collaborazione Civica per Matera 2030, Le chiediamo egregio Direttore, dov’è la reazione meridionalista dei nostri sindaci, presidenti di regione, istituzioni, partiti, sindacati, movimenti sociali? E occorre aggiungere: dove sono rintanate le nostre popolazioni? Si vuol mostrare ancora una volta, col pretesto del forzato, ingiusto e miope ‘solidarismo’, la totale incapacità di cogliere, invece, ad esempio con la via della seta, una storica, irripetibile, occasione: fare del Mezzogiorno il centro di una nuova area economica nel Mediterraneo, in contrasto con l’imperialismo mondializzato e a favore di un nuovo quadro geopolitico, più equilibrato, multipolare?