INDICE DEI CONTENUTI
- 1 Al di là della canzone di Bennato, cosa era Mongiana e cosa ha rappresentato?
- 2 Su cosa si fonda il mito neoborbonico di Mongiana e quanto è importante, oggi, fare storia con rigore scientifico?
- 3 Al netto della canzone di Bennato su Mongiana, la verità storica documentata qual è?
- 4 Secondo lei il brano avrà successo?
- 5 Lei ha origini di Mongiana. Una simile narrazione in quel luogo resiste?
Andrea Mammone, storico che insegna alla Sapienza, smonta il mito neoborbonico veicolato dalla canzone di Bennato su Mongiana
Sembra destinato a fare discutere “Mongiana”, il nuovo brano di Eugenio Bennato, in rete da qualche giorno, che anticipa l’uscita di un nuovo album e racconta il “grande sogno di metà Ottocento” della “più grande fabbrica d’Italia”. Non la pensa affatto così Andrea Mammone, lo storico della Sapienza che al “Mito dei Borbone” ha dedicato il suo ultimo libro con cui smonta molte controstorie sul Risorgimento italiano.
«Eugenio Bennato è un grandissimo musicista. Ma il testo di questa canzone è assolutamente fuori contesto», dice al Quotidiano lo storico, che peraltro da ragazzino andava spesso nel paesino delle Serre vibonesi perché suo padre era proprio di Mongiana. «Povera Calabria» è, non a caso, il titolo di uno dei capitoli del libro che decostruisce analisi superficiali su cui, tra l’altro, si basa la narrazione di Mongiana come simbolo di grandezza di una regione che non aveva alcuno sviluppo industriale. Proprio il paesino di Mongiana ha un ruolo importante, suo malgrado, nella narrazione proposta dalla galassia revisionista, perché la produzione metallurgica in quella zona montana e sperduta rappresenterebbe una controprova del fallimento dell’unificazione d’Italia.
“C’era una volta e ora non c’è più. Mongiana, Calabria, profondo Sud… che fine ha fatto quel grande sogno”, canta Bennato.
Al di là della canzone di Bennato, cosa era Mongiana e cosa ha rappresentato?
«Ho ascoltato il brano. Eugenio Bennato è un grandissimo musicista ma il testo di questa canzone è fuori contesto da un punto di vista storico e fattuale. È vero che la fabbrica di Mongiana dava lavoro a molte persone e produceva ferro di discreta qualità. Ma sopravviveva grazie alle commesse borboniche. Non era una fabbrica privata, ma di diretto controllo dell’amministrazione, in un contesto economico drogato. La fabbrica, in quelle condizioni storiche, non avrebbe retto un’economia di mercato. Con gli scambi che si andavano liberalizzando e la carenza di infrastrutture il nuovo Regno in un decennio non avrebbe potuto cambiare le cose. Non era economicamente conveniente produrre su una montagna in cui non c’erano strade. Il prodotto veniva trasportato con i muli su strade impervie dalla montagna al mare, dove c’era il primo porto utile. Sarebbe stato più economico il ferro proveniente dalla Inghilterra, che aveva conosciuto la rivoluzione industriale e in cui i mezzi di trasporto erano molto più efficienti».
Su cosa si fonda il mito neoborbonico di Mongiana e quanto è importante, oggi, fare storia con rigore scientifico?
«La leggenda di Mongiana evoca il Sud abbandonato perché la fabbrica è stata chiusa. Ma la fabbrica non poteva sopravvivere. Il Sud, inoltre, è abbandonato anche oggi. Ma lo Stato unitario ha portato a uno sviluppo che sarebbe stato inimmaginabile sotto i Borbone. Bennato si rifa a una mitologia dei briganti e dei Sud del mondo, ma su basi storiche deboli. Il brano può esercitare appeal grazie al mito, alla malinconia, alla nostalgia di un’età in cui il Sud era ricco. Tutto ciò contribuisce a quella mitologia secondo cui nel vecchio Sud si stava bene e oggi si sta male perché il Nord ci ha distrutti e/o colonizzati. Il mito di Mongiana non tiene conto del contesto storico internazionale, sociale, e alimenta vittimismo meridionale e autoassoluzione del Sud».
Al netto della canzone di Bennato su Mongiana, la verità storica documentata qual è?
«La verità è che quella di Mongiana era una fabbrica che aveva una produzione economicamente insostenibile. Se i Borbone avessero voluto investire su un sito internazionalmente rilevante avrebbero dovuto costruire strade per il mare, dove c’erano porti che trasportavano il ferro, perché mancavano assolutamente le strade interne. Il regno borbonico era povero, e su Mongiana non c’era né investimento pubblico né privato. E non si reinvestivano le rendite come accadeva in alcune zone del Nord. Al momento dell’unificazione, l’Italia era un Paese quasi interamente agricolo e arretrato da un punto di vista industriale rispetto alle potenze europee. Il “primato” di Mongiana era di uno a 100 rispetto a una fabbrica inglese. Per il regno borbonico la fabbrica era certamente importante ma non lo era in un contesto di scambi paneuropei. È una bufala che il regno borbonico fosse la seconda o terza potenza europea. Marx andò a studiare il sistema capitalistico e la lotta di classe in Inghilterra, che aveva conosciuto la rivoluzione industriale. Non venne a Mongiana, che rappresentava una cattedrale nel deserto della mancanza vie di collegamento, e neanche in altre fabbriche italiane. Anche oggi abbiamo problemi di collegamento al Sud, e i territori ne soffrono. Figuriamoci all’epoca, quando non c’erano treni, né aeroporti e nemmeno strade».
Secondo lei il brano avrà successo?
«È una di quelle canzoni che nelle piazze si sentiranno. I siti neoborbonici stanno già omaggiando Bennato. I libri di storia li leggono in pochi, sono molti di più quelli che ascoltano canzoni. E questa canzone ci racconta la storia di una ricchezza perduta e, in buona fede, può influenzare le persone. Il libro di Pino Aprile “Terroni” ha alimentato quel complottismo che si basa su una storia negata di chi è vicino al potere, secondo cui il regno borbonico esportava molto e Mongiana era la più importante fabbrica italiana. Ma sono dati falsi creati da quella narrazione secondo cui l’Italia era un Paese industrializzato. Anche perché, e su questo dubbi non ci sono, la fabbrica finisce in mano privata, chiude e porta disoccupazione. Una disoccupazione mai risolta. Anche durante le presentazioni del libro, girando per l’Italia, incontro questa nostalgia del passato che accomuna progressisti e reazionari, non solo ultracattolici o preti antirisorgimentali. C’è una retorica che guarda a un vecchio Sud dell’oro che gli studiosi non hanno mai trovato perché i dati non ci dicono questo».
Lei ha origini di Mongiana. Una simile narrazione in quel luogo resiste?
«In quel luogo esisteva. A livello nazionale si è diffusa dopo, anche con l’uscita del libro di Aprile, vendutissimo, che ha contribuito a questo sviluppo del mito di Mongiana. È un luogo che conosco abbastanza bene, in cui ancora si sconta la mancanza di strade e collegamenti. Ovviamente c’è una doppia responsabilità, da parte dello Stato centrale, che comunque negli anni della Cassa del Mezzogorno ha erogato molti finanziamenti per ridurre il gap Nord-Sud, e da parte dei calabresi la cui élite politica ed economica non si è impegnata tanto nel rilanciare alcuni luoghi».
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