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«Questo film mi ha dato la possibilità di innamorarmi nuovamente della Calabria, di rappacificarmi con la mia terra». A poche ore dalla première berlinese della sua opera prima “Una femmina”, che sarà presentata questasera, domenica 13 febbraio 2022, nella sezione Panorama del festival, il regista cosentino Francesco Costabile è emozionato e soprattutto sente una calorosa corrente di affetto attorno a
questo film.
Dopo la gremita anteprima industry di stamattina, 13 febbraio 2022, (che è promettente pensando anche alla distribuzione estera del lungometraggio) alla proiezione ufficiale per il pubblico allo Zoo Palatz parteciperanno il cast artistico con regista e attori (Lina Siciliano, Fabrizio Ferracane, Anna Maria De Luca, Luca Massaro, Mario Russo e Francesca Ritrovato) le maestranze tecniche e una delegazione arrivata da Verbicaro.
«Abbiamo girato lì – dice Costabile – e si è creato un rapporto bellissimo con la gente. Hanno preso l’aereo e sono venuti a loro spese per non mancare a questo evento».
Per ricambiare il sostegno calabrese, il regista ha voluto a Cosenza l’anteprima nazionale dell’uscita nelle sale, il 17 febbraio, ospite di Giuseppe Citrigno, che con la sua Film commission era stato punto di riferimento del film, poi con la continuità della successiva gestione di Giovanni Minoli.
“Una femmina” è un film potente e coraggioso. Quando il cinema racconta la ‘ndrangheta, le reazioni sono sempre di scontro ideologico tra le accuse di cattiva pubblicità alla Calabria e la morale del doverne parlare per non peccare di omertà e negazionismo.
«È una discussione che va avanti da decenni, non solo in Calabria ma in tutti i territori che nella loro storia hanno lo stigma delle organizzazioni criminali. I palermitani non vogliono essere rappresentati come mafiosi, né i napoletani come camorristi. Ma si tratta di uno stereotipo culturale molto radicato: mafia è la parola italiana più nota all’estero dopo pizza. E al cinema un capolavoro come “Il Padrino” ha nutrito molto questo immaginario. Non credo che parlare di fatti veri possa infangare luoghi e persone. Se l’arte mantiene aderenza alla realtà, compie un processo catartico, come accadeva ad esempio nella tragedia greca. La violenza, in particolare, fa parte della natura umana e le arti hanno l’obiettivo di rivelare quello che non si vede, di scrutare nelle zone d’ombra».
È innegabile che non tutti al cinema sappiano parlare di ‘ndrangheta. I mali della Calabria sono spesso argomento di narrazioni banali e infarcite di luoghi comuni, o enfatizzate in nome di un effetto romanzesco fasullo. Emerge però una voce nuova. Lei, come Jonas Carpignano o Alessandro Grande, appartiene a una generazione che finalmente afferma il suo sguardo originale. Come si racconta senza rischi di stereotipi una materia durissima come quella del libro di Lirio Abbate sulle donne vittime di ‘ndrangheta?
«Sono partito da quelle storie, vere e terribili, e Rosa è in effetti una giovane donna che si affranca dalla ‘ndrangheta, ma volev trasmettere un messaggio universale. Questa è una storia di violenza, non riconoscibile solo in Calabria e non solo nell’ambiente criminale. Ho provato una grande felicità quando, durante le riprese, una ragazza estranea al set, ha letto alcune pagine della sceneggiatura senza sapere di cosa parlasse il film. Quelle poche parole l’hanno colpita così tanto da farle decidere di lasciare il fidanzato, figlio di un mafioso. È stato un gesto di liberazione. Credo che un film che parla di violenza debba fare questo, parlare a vite e condizioni diverse, smuovere le coscienze. Lo sguardo è differente quando si parla di ‘ndrangheta per arrivare al dramma dell’umanità».
Il vero fulcro del film è la famiglia, croce e delizia degli artisti. Dolorosa non solo nel solco della ‘ndrangheta ma terreno (universale, sì) di traumi e infelicità. Raccontando la ribellione di Rosa, lei ha travasato anche il vissuto di Lina Siciliano, cresciuta in una casa famiglia. E il suo.
«Per restituire la storia di queste donne non mi serviva un’attrice, ma qualcuno che comunicasse rabbia e dolore. Ho cercato in contesti sociali marginali e a Lina questo film ha dato un’occasione, è stato terapeutico. Lei ha alle spalle una storia mancanza familiare, ha dovuto costruirsi da sola: Rosa le ha dato grande forza. La mia storia è diversa, io ho una famiglia meravigliosa che mi ha sempre appoggiato nelle mie scelte e mi ha permesso di studiare cinema e realizzarmi. Per me è stato complesso affermare la mia identità e affrancarmi dalla mascolinità tossica, esprimendo me stesso. Oggi la situazione è in parte cambiata, ma io ho quarant’anni e da ragazzino i tempi erano altri. Ho dovuto lottare anche per cose semplici, per tenere i capelli lunghi. Sembrano battaglie minime, ma per un ragazzino sono momenti di guado, importanti da superare. Credo che in questo film ci sia anche tutto questo, che ognuno possa ritrovare i suoi piccoli traumi e rielaborarli».
Ha detto che “Una femmina” l’ha riconciliata con la sua terra. E che ha ritrovato la bellezza della Calabria.
«E’ così. Da anni non restavo in Calabria così a lungo come quando ho girato questo film. Ho riscoperto la bellezza ma anche le risorse che questa terra possiede. Al film hanno lavorato maestranze bravissime del territorio e ho riflettuto sul fatto che tutti partiamo portando via i nostri talenti. Invece la vera arma contro il degrado e la ‘ndrangheta è culturale – sono le idee, i progetti, la creatività. Il riscatto passa dalla produzione di cultura. Bisogna riportare i sogni in Calabria, in modo che i giovani non siano più costretti ad andarsene per realizzarli»
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