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Autonomia differenziata e la richiesta di Zaia: con il federalismo la repubblica rischia di restare solo un’immagine sui francobolli


Dopo la pubblicazione della legge 26 luglio 2024 n. 86 sulla autonomia differenziata è già a Palazzo Chigi una lettera, in data 1° luglio, con cui Zaia chiede la “ripresa del confronto” per l’attuazione dell’art. 116.3 della Costituzione.
L’obiettivo: “nelle 23 materie previste dall’art. 116, terzo comma, della Costituzione, la Regione intende chiedere le funzioni che ritiene di poter esercitare con maggior attenzione al territorio ed ai propri amministrati”. In particolare, Zaia vuole subito un negoziato sulle nove materie non-Lep. A queste chiede di “aggiungere, per una prima indagine dei più complessi profili di attribuzione, le materie” di cui ai preaccordi del 2018, e precisamente politiche del lavoro, istruzione, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e tutela della salute. Per proseguire poi con le restanti dieci materie.

Da notare la dichiarata continuità con i preaccordi del 2018. Inoltre, l’unica ragione per la richiesta estesa a tutte le 23 materie è la presunzione che la regione possa fare meglio, senza alcun riferimento a specificità del territorio. Mentre i vuoti luoghi comuni sulla responsabilizzazione degli amministratori, la solidarietà e l’eguaglianza sono l’ennesimo remake di un film già visto.
Il secessionismo soft prefigurato nella lettera di Zaia ribadisce la necessità di contrastare la legge Calderoli. Si discute di referendum abrogativo e di ricorso in via principale davanti alla Consulta. C’è consenso su una richiesta di abrogazione totale, che però potrebbe essere dubbia quanto all’ammissibilità. Un rischio che bisogna correre.
Uno o più quesiti di abrogazione parziale della legge Calderoli potrebbero superarlo. Ma i quesiti parziali dovrebbero limitarsi a una correzione relativamente marginale della legge, rimanendo esclusa la possibilità di capovolgerne l’impianto divisivo. Paradossalmente, se tale fosse l’esito, secondo la giurisprudenza costituzionale sarebbero anch’essi a rischio di inammissibilità per eccesso di manipolazione.

Quesiti parziali sarebbero altresì poco comprensibili e difficili da gestire nella campagna referendaria. Ci sarebbe una contraddizione palese con il quesito totalmente abrogativo, che peserebbe sulla raccolta firme. Quanto al voto, cosa diremmo agli elettori se fosse ammesso anche il quesito totalmente abrogativo? Che i parziali sono il paracadute nel caso vinca il no sull’abrogazione totale?
A mio avviso, la scelta migliore è presentare il solo quesito totalmente abrogativo, affiancato al ricorso in via principale, che può essere presentato dalla regione per la lesione delle attribuzioni ad essa costituzionalmente riconosciute. Secondo un’opinione, la legge Calderoli, avendo ad oggetto le procedure per la formazione delle intese tra stato e regione, non può di per sé produrre tale lesione. Ma la legge ha ad oggetto l’attività negoziale del governo, che bene potrebbe e dovrebbe essere regolata in modo che l’intesa con la singola regione sia costruita evitando danni in prospettiva ad altre. La stessa legge Calderoli lo ammette, quando attribuisce al presidente del consiglio il potere di limitare – ma solo eventualmente e a sua discrezione – il negoziato a tutela dell’unità giuridica ed economica, e delle politiche pubbliche prioritarie.

La lettera di Zaia aiuta sulle possibili motivazioni del ricorso. Se ne trae un modello che, se generalizzato, darebbe luogo a competizione e conflittualità permanenti tra regioni. Il primo tassello si trova proprio nella richiesta avanzata su tutte le 23 materie senza alcun collegamento con specificità del territorio. Vengono in tal modo massimizzati gli effetti collaterali e le esternalità a danno di altre regioni.
Prendiamo ad esempio la menzione nella lettera delle politiche del lavoro. Si può ipotizzare l’obiettivo – nel pubblico e nel privato – di attrarre lavoratori: quelli più qualificati, o comunque necessari al sistema regionale. Ma questo avverrebbe solo sottraendoli ad altre regioni. È in sostanza la critica ripetutamente avanzata da De Luca sull’ipotesi di contratti integrativi per sanità e scuola. Considerazioni analoghe possono farsi in tutte le materie, come ad esempio le professioni, l’energia, l’ambiente, le infrastrutture strategiche o il commercio con l’estero, che in specie ha indotto Occhiuto a manifestare preoccupazione per la competitività delle regioni del Sud sull’export. E non dimentichiamo che regioni poco attrattive – a causa di carenze infrastrutturali – per gli investimenti privati potrebbero tentare di riguadagnare appeal allentando vincoli ambientali o di tutela del lavoro. Con forme pericolose di dumping sociale e territoriale.

Emergono allora molteplici motivi di ricorso avverso la legge Calderoli. In primis, che la richiesta di maggiore autonomia non sia collegata a specificità del territorio. Inoltre, che non si assicuri una necessaria valutazione delle esternalità, e dell’impatto su altre regioni. Che sia possibile il ritaglio dei principi fondamentali posti con legge statale, che in un sistema ampiamente frammentato si pongono a tutela non solo dello stato, ma – come regola generale uguale per tutti – delle stesse regioni.
E che sia solo eventuale il limite al negoziato a tutela dell’unità giuridica ed economica, che parimenti presidia la par condicio di tutte le regioni. Che la gestione di ciascuna intesa stipulata sia affidata a una commissione paritetica stato-regione, senza una effettiva valutazione dell’interesse delle altre regioni. Che non si condizioni la maggiore autonomia al finanziamento e alla concreta erogazione dei Lep. Infine, che con la norma transitoria – esplicitamente richiamata nella lettera – si dia alle regioni dei preaccordi un privilegio inevitabilmente a danno delle altre.

Se molte regioni, o anche solo le regioni più forti – magari riunite in macroregione in base all’art. 117.8 della Costituzione – seguissero l’esempio del Veneto, della Repubblica italiana rimarrebbe solo l’immagine su qualche francobollo.


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