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Maria Concetta Cacciola

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di ANGELA IANTOSCA

MADRI, sorelle, figlie, amanti, spose. Casalinghe e donne in carriera, vestite di nero o con abiti all’ultima moda, sono le donne di ‘ndrangheta, maschere di tragedie nelle quali nascono e che sono costrette a interpretare appena vengono al mondo, mogli fedeli prima di tutto ad un ruolo grazie al quale garantiscono a se stesse e alla propria prole la sopravvivenza. Perché loro lo sanno che chi prova ad uscire da quella tragedia che si chiama Onorata società è destinato a morire.

La ‘ndrangheta è una organizzazione criminale matriarcale con un impianto maschilista nel quale le donne hanno sempre ricoperto un ruolo di primaria importanza, ma protetto dal silenzio e da una voluta sottovalutazione del mondo femminile. All’ombra delle loro case si sono occupate della famiglia, vestendo i panni di mogli e madri, preoccupandosi di tramandare i ‘valori’ dell’organizzazione, con le parole, i racconti, le nenie, come la “Ninna nanna malandrineddu”, nascondendo i latitanti, rimanendo in disparte, sapendo quando parlare, tacere o sparire. Sono donne che nei decenni hanno acquisito sempre più un ruolo dominante, dapprima occupandosi di portare il cibo ai sequestrati, durante gli anni dei sequestri di persona che hanno permesso alla ‘ndrangheta di entrare nel mercato internazionale della droga; poi andando via via a sostituire gli uomini durante le loro assenze a causa delle latitanze, degli arresti o delle morti, divenendo anche donne di potere, capaci di ordinare omicidi con voci infernali che hanno dimenticato quale è la loro vera natura.

Eppure, a fronte di una crescente partecipazione alle attività familiari, soprattutto in certi contesti, il rispetto a loro dovuto è sempre dipeso dal rispetto dovuto agli uomini di cui sono mogli, sorelle, figlie… Perché, come si sente in una intercettazione, “il cervello di una donna è come un filo di capello”. Ma è veramente così o è quello che ci hanno voluto far credere? Perché è innegabile che questa sottovalutazione è stata funzionale alla causa: il non guardare a lungo al loro mondo (anche da parte delle Forze dell’Ordine e della magistratura) ha permesso all’organizzazione di proseguire indisturbata nonostante gli arresti, nonostante le guerre di mafia che hanno decimato le famiglie, nonostante le assenze ‘forzate’, che non hanno impedito alle donne di mettere al mondo figli ovvero nuova forza lavoro.

Le donne, pertanto, nel tempo hanno assunto diversi incarichi: oltre al ruolo principale di mogli e madri, sono postine, cioè portano le informazioni in carcere e dal carcere verso l’esterno, intestatarie fittizie, si occupano dello spaccio, dell’usura, trasportano armi, le più anziane tengono la borsa, hanno una grande capacità di spingere gli uomini alla vendetta, a lavare il sangue nel sangue. Ma accanto a queste ‘donne dentro’ che accettano che i loro figli diventino carne da macello in nome del potere, motore primo della ‘ndrangheta, ci sono le donne che hanno deciso di ribellarsi e che lo hanno fatto principalmente per salvare i figli, per sottrarli al loro stesso destino, per renderli davvero liberi: sono donne i cui nomi negli ultimi anni hanno riempito le pagine dei giornali, come Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo, due testimoni di giustizia uccise rispettivamente dalla famiglia d’origine e dal compagno.

E poi Giuseppina Pesce, la collaboratrice di giustizia che svolgeva il ruolo di postina che, dopo alcuni mesi di carcere, qualche anno fa ha deciso di avviare una collaborazione con lo Stato e che ora vive in località protetta insieme ai suoi tre figli. E poi Maria Stefanelli, figlia e moglie di ‘ndrangheta, testimone di giustizia determinante nel processo “Minotauro” che è stato celebrato in Piemonte. Ma accanto a loro ci sono anche altre donne, i cui nomi sono sconosciuti, donne che negli ultimi mesi stanno chiedendo aiuto anche al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, nella persona di Roberto Di Bella, il suo Presidente, che da anni porta avanti il progetto “Liberi di Scegliere” che propone per i “figli della ‘ndrangheta” finiti nelle maglie della giustizia, dei percorsi al di fuori del paese in cui sono nati, prospettando loro un futuro diverso, libero, all’insegna della bellezza da cui sono privati sin dalla nascita.

In nome dell’amore per questi figli le donne stanno provando a dare una svolta alle loro vite, con l’aiuto dello Stato, vite dolorose e scandite dalla sofferenza come mi ha raccontato una mamma di ‘ndrangheta della Locride che si è sposata per amore e che, dopo l’uccisione del marito, ha visto la sua vita segnata dagli omicidi dei parenti e dagli arresti dei figli alcuni dei quali, condannati al 416 bis, non abbraccia da troppo tempo. Che odore avrà dopo più di dieci anni un figlio? Chi sarà veramente quel ragazzo che ha messo al mondo e con il quale da anni parla sempre sotto l’occhio vigile di una telecamera? Che senso ha una vita così? Si è madri davvero quando si mette al mondo la morte?

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