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“Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’’ignoto. Il Coronavirus si era nascosto proprio qui…”. Così, con una frase rubata a Sherlock Holmes – “scartato il probabile e il possibile, l’impossibile dev’essere vero- Annalisa Malara, 38 anni, coraggiosa anestesista di Cremona ha commentato sul quotidiano Repubblica la scoperta del “paziente 1”, il primo portatore del Coronavirus in Italia.
La dottoressa Malara è quella cocciuta allieva d’Ippocrate che, forzando tutti i protocolli, è riuscita, il 19 febbraio scorso, ad individuare nella “polmonite gravissima e impossibile “ di Mattia -l’omone sportivissismo ancora intubato in terapia intensiva- il silenzioso esordio del virus probabilmente arrivato dalla Cina via Germania. Ma dalla sua intervista viene confermato ufficialmente quel che già si sapeva: Mattia era già arrivato in Pronto Soccorso all’Ospedale di Codogno il 14 con un’influenza durevole e perturbante e l’hanno mandato a casa probabilmente con un’aspirina. Poi è tornato il 18, gli hanno fatto le lastre che evidenziavano “una leggera polmonite”.
Infine, il 19 è rientrato nello stesso ospedale, a polmonite già gravissima. “Dalla medicina Mattia è arrivato in rianimazione- afferma il medico- Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso”. Sicché “il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato”. Nel senso che il virus è scivolato sui guanti e sulle mascherine indossate in tutta fretta dall’equipe medica, e non ha contagiato nessuno di loro. Ed è finita che Mattia non ha perso la vita solo grazie alla zelante anestesista, il cui intervento ha fatto ricoverare d’urgenza il paziente al San Matteo di Pavia per “sottoporlo a terapia sperimentale”.
E ha fatto certamente guadagnare giorni preziosi rispetto al contrasto all’epidemia. Alla domanda sull’inefficienza del protocollo sanitario che è stata costretta a violare, l’anestesista esprime un dissenso fra le righe: “Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. E ha ragione. Il virus, invece, grazie a lei, è girato indisturbato solo per una settimana scarsa. Che è bastata a sprofondarci in questo gorgo di malattia misto a tensione, a senso d’impotenza e a timore sulla tenuta delle nostre strutture sanitarie.
Eppure, passata questa maledetta buriana, noi ci ricorderemo di questi sei giorni e mezzo che hanno sconvolto il nostro mondo, di questo buco d’inefficienza dovuto ad imperizia burocratica di un governo centrale non ancora preparato alla botta e a un piccolo ospedale che probabilmente -all’inizio- troppo s’è fidato del proprio dinamismo lombardo. Ad evitare che le cose andassero ancora peggio è servita l’iniziativa e la rapidità di decisione di un singolo. Di una scienziata che, evidentemente, ha passato più tempo a leggere Conan Doyle che i decreti e le ordinanze della politica. E meno male.
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