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Alcide De Gasperi ovvero il realismo della politica. Che non è il cinismo, ma la capacità di fare le cose. Con un metodo preciso. Esamino il problema che ho davanti. Tengo conto degli uomini che ci sono e, se necessario, li cambio. Tengo conto di che cosa mi consentono le circostanze e mi confronto operativamente con la gravità del problema da affrontare e risolvere. Faccio il passo avanti che posso fare al meglio. Quello che lui chiama il passo del montanaro che è il passo lento ma che arriva alla meta. Non perdo il fiato e non mi fermo. Supero chi corre perché perde il fiato e è costretto a fermarsi. Sono il più veloce a fine corsa.

Questo è il realismo realizzatore di Alcide De Gasperi politico di mestiere. Ricordo una sua splendida lettera dal carcere alla moglie in cui, cito a mente, dice più o meno così: come un medico può fare solo il medico e se è un chirurgo al massimo cambia la sala operatoria, e un ingegnere può fare solo l’ingegnere al massimo cambia politecnico, io posso fare solo il politico, questa è la mia missione, questa è la mia vocazione, bisogna che ti rassegni.

Questo politico di mestiere (De Gasperi) insieme a un altro cavallo di razza della politica, Amintore Fanfani, che verrà dopo di lui, hanno guidato le stagioni d’oro del Centrismo e del Primo Centrosinistra che hanno “fabbricato” insieme il miracolo economico italiano. Anche loro, però, De Gasperi e Fanfani, senza uomini del fare del calibro di Pescatore, Sinigaglia, Bernabei e molti altri, non avrebbero risollevato l’Italia dalle macerie della guerra e trasformato un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata e poi in una potenza economica mondiale.

Oggi siamo alle prese con la seconda Ricostruzione economica italiana dentro il tunnel della Grande Depressione Mondiale in cui ci ha rinchiuso una Pandemia globale che ha coinvolto al momento più di quattro miliardi di abitanti della terra. Siamo al nuovo ’29 mondiale. Questo giornale ha sostenuto dal primo momento l’esigenza di un gabinetto di guerra italiano di uomini del fare per mettere fuori gioco una burocrazia che si ostina a non misurarsi con la realtà. Qui, però, vuole rievocare l’esperienza politica di un politico con la P maiuscola, Alcide De Gasperi, che è quello che più di ogni altro impersonifica il miracolo economico italiano e che impostò l’azione decisiva di quegli uomini del fare. Ci piace farlo oggi, a modo nostro, per la lezione di straordinaria attualità che quella esperienza custodisce. A partire dalla intuizione fondante della coerenza meridionalista che non è mai venuta meno. È De Gasperi a individuare lo strumento giusto (la prima Cassa del Mezzogiorno, una falange di 300 uomini, quasi tutti ingegneri) e a scegliere la persona giusta, il magistrato irpino Gabriele Pescatore, per guidare l’attuazione con successo della riunificazione economica delle due Italie.

Operano, certo, in un mondo di intelligenze fattive, come quelle del siculo-valtellinese Saraceno, di Menichella che vince l’oscar mondiale della lira,  dei Campilli, dei Pastore, e così via, ma fanno tutti insieme qualcosa di profondamente straordinario sotto una guida politica riconosciuta. Ricordiamocelo. Ripenso a una mattina romana assolata di fine giugno di quasi quindici anni fa, sala della Lupa a Montecitorio. Sono lì con Paolo Pombeni e Gian Enrico Rusconi per ricordare Alcide De Gasperi. A me è stata affidata una relazione sull’attualità del suo pensiero e della sua opera e mi sono preparato con cura. Esco da quell’incontro “ristorato” perché la sua storia personale, l’amore (mai nascosto) per la politica, le capacità di governo e il senso della storia, esercitano su di me un’attrazione fatale. Se devo pensare a un grande italiano, penso a lui: questo trentino di poche parole che riesce a piegare il Paese alla “coerenza meridionalista” e a mettere le «basi» dell’unico, vero grande miracolo economico italiano, è come se lo conoscessi da sempre. Quasi uno zio nobile di famiglia, un punto fermo nelle idee, un presidio per l’animo.

Uscito da Montecitorio e avviatomi verso casa mi sento più leggero, so che la politica in Italia si è chiamata anche De Gasperi e questo mi rassicura. Non so perché ma mi capita di tornare con la mente a quella mattina e continuo a pensare a quella lettera che lui scrisse dal carcere alla moglie il sei agosto del 1927. Voglio rievocarla ancora: «Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione come dilettanti e altri che la considerano come un accessorio. Ma, per me, fin da ragazzo era la mia carriera, o meglio la mia missione». Diciamoci la verità. Il degrado civile ha segnato per troppo tempo le stagioni italiane della Grande Crisi, con corpi e poteri dello Stato in perenne guerra tra di loro. Abbiamo assistito angosciati agli schiamazzi di una politica confusa, inconcludente, spesso motore di clientele e malaffare, che continua a riempirsi la bocca con frasi del tipo: «Abbiamo liberato il Paese dai politici di professione». Abbiamo fatto tutto ciò incoscientemente mentre si saldavano la crisi finanziaria globale e i vizi italiani.

In questi giorni di nuovo ’29 mondiale con l’Italia che rischia di tornare a essere lo Stato da vendere, come nel novembre del 2011, questa volta per colpe tutte sue, penso a De Gasperi e a quella mattina nella sala della Lupa. Il Paese non ha bisogno di dilettanti e neppure di accessori. La storia ci insegna che se economia e finanza cominciano a ballare, ci può salvare solo la politica e chi la ama. Un viso scavato, il senso dello Stato, la spinta della «missione».

Paolo  Pombeni è stato a lungo direttore dell’Istituto Storico italo-germanico di Trento ed è editorialista del nostro giornale. Per me è prima di tutto un amico. Che mi ha trasferito la passione per De Gasperi: il più laico dei cattolici e il più cattolico dei politici di razza, sempre disponibile anche per l’ultimo dei suoi elettori, a lungo dimenticato, poi improvvisamente riapparso in modo stabile come punto di riferimento per tutti. Continuo a scavare nei miei ricordi e mi viene in mente sempre Pombeni. Ho trovato questa bella citazione di De Gasperi, mi dice un po’ di tempo fa, te la giro, perché l’ha ripetuta più volte, ci credeva molto, e soprattutto mi sembra che possa far riflettere. Ve la ripropongo: «Lavoriamo in profondità, senza ambizioni particolaristiche, con alto senso del dovere, non curanti delle accuse di essere troppo a destra o troppo a sinistra, secondo il linguaggio convenzionale della superata topografia parlamentare. In realtà ogni partito realizzatore sta al centro, fra l’ideale e il raggiungibile, fra l’autonomia personale e l’autorità dello Stato, fra i diritti delle libertà e le esigenze della giustizia sociale». (La parola ai democratici cristiani, «Il Popolo» 12 dicembre 1943. Ora in, A. De Gasperi, Scritti e Discorsi politici, vol. III, Bologna, Il Mulino, 2006,  pagg. 652- 662).

Lavorare in profondità, senza ambizioni particolaristiche, con alto senso del dovere e spirito realizzatore, questo è stato De Gasperi, e aggiungiamo noi lo ha fatto imponendosi una regola inclusiva, coinvolgendo il più possibile, capendo la portata dei problemi e avendo, quindi, ben chiaro che una sfida così ambiziosa si può vincere se si ha dietro il Paese, se si è in grado di coinvolgere intelligenza  tecnica, cultura laica e riformismo cattolico, le grandi competenze e le capacità operative giovani e meno giovani.

Questo vuol dire lo «spirito realizzatore» di De Gasperi ed è quello che serve oggi per rialzare la testa e ripartire, con un linguaggio di verità, dimostrando di volersi misurare subito in modo efficiente con la pesantezza dei problemi e avendo bene a mente che il cammino è lungo e che, proprio per questo, il senso di responsabilità deve essere diffuso e trasparente. Il lavoro oggi si difende facendo le cose e la politica ha bisogno di un ambiente amministrativo intorno completamente nuovo. Servono liquidità vera fatta di fondo perduto oggi e investimenti veri domani. Su questi due terreni si misurano la forza ideale e la capacità operativa del partito realizzatore e di tutti i soggetti economici e sociali.

Dai tempi di De Gasperi è cambiato quasi tutto. Il mondo è più complesso e integrato del passato. La crisi globale appare infinita e la Grande Depressione Mondiale farà ulteriormente esplodere le diseguaglianze. L’Italia rischia di uscire dal novero dei Paesi industrializzati perché segue un drappello di burocrati-complicatori che non ha capito che bisogna spendere (tanto e bene) e che gli extra-debito pubblici (Covid) verranno tutti azzerati. Alla base di ogni rinascita, però, ci dovranno essere sempre le donne e gli uomini, i giovani e i meno giovani. Ci dovranno essere gli italiani con lo spirito e la tenacia che sono necessari per cambiare passo e fare capire al mondo che si fa sul serio. Ci saranno di sicuro se il Paese ritrova la sua vocazione realizzatrice e lo fa senza ipocrisie e senza scorciatoie. A quel punto, vorrà dire che la politica (tutta) ha capito la lezione e ha scelto di «lavorare in profondità».


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