Domenico Arcuri
4 minuti per la letturaVa per mettere una toppa e gli si apre una voragine, povero commissario Domenico Arcuri. Prova a fare i fuochi pirotecnici con i numeri delle mascherine, spargendo milioni di qua e milioni di là pur di non affondare, e non si accorge, per la smania di annunciare qualcosa, di aver acceso forse suo malgrado un’altra grossa miccia, quella dei tamponi. La miccia che rischia di bruciarlo davvero.
Arcuri, infatti, in una delle sue proverbiali intemerate, ha voluto incautamente ricordare che nella giornata di lunedì scorso è stata pubblicata la richiesta di offerta per kit e reagenti, ovviamente anche sulla «piattaforma di gestione degli acquisti del commissario straordinario». Mal gliene incolse perché Giorgio Gori, sindaco pd di Bergamo-mica un bieco avversario politico- l’ha fulminato in due righe: «Quindi è vero: i cinque milioni di tamponi che il Governo si accingeva a spedire alle regioni erano solo bastoncini». Della serie: erano tamponi sì, ma senza reagenti, che oggi risultano tra le merci più preziose al mondo.
Ma il problema è un altro, come spiega Gori: perché la richiesta di offerta «è stata avanzata solo tre mesi dopo l’inizio dell’emergenza?». E che possibilità ci saranno ora di reperire anche sul mercato internazionale questi preziosi reagenti? E perché l’ennesimo tentativo di confondere le acque annunciando agli ignari italiani «cinque milioni di tamponi» che in realtà erano «solo bastoncini»? Ah, saperlo… E siccome di tweet in tweet di solito si arriva il dunque, puntuale arriva quello di Carlo Calenda, ex ministro e leader di Azione, neanche lui esattamente un avversario politico di Arcuri: «Il Governo dovrebbe riconoscere di aver scelto la persona sbagliata e rimuovere il commissario Arcuri. Rapidamente». Comunque vada, a Calenda l’onore della prima richiesta: neanche l’opposizione era arrivata a tanto.
Abbiamo iniziato dalla fine solo perché la cronaca si imponeva. Ma andando di poco a ritroso, si trova puntuale la conferma che la vita del commissario è davvero diventata un inferno. Prende sberle da tutte le parti. Prova a ingaggiare l’ennesima duello con i farmacisti sulle ”mascherine di stato“, su quei dispositivi medici che dovrebbero costare 0.61 euro ognuno e che semplicemente non si trovano. Tuoni e fulmini, secondo un puro stile Arcuri: «La giungla non tornerà, gli speculatori e le categorie a essi simili se ne devono fare una ragione». E giù le cifre e gli annunci : per il commissario «nelle prossime settimane» (?) le mascherine a 50 centesimi (lui ci ha già tolto l’Iva) si troveranno nei cinquantamila punti vendita dei tabaccai. «Nell’ultima settimana – il fantastico bilancio del commissario – abbiamo distribuito 36,2 milioni di mascherine alle Regioni, il 40 % in più della settimana precedente e 208,8 milioni dall’inizio dell’emergenza. In tutto ce ne sono 55 milioni nei magazzini delle Regioni» . «Qualche volta faccio errori» ha ammesso bontà sua, ma dice di aspettarsi critiche «solo dai cittadini», come se farmacisti e imprenditori non lo fossero.
Già, i farmacisti: le loro ultime reazioni grondano rabbia e amarezza: «È ora di dire la verità – intima al commissario Vittorio Contarini, di Federfarma Lazio – di fare chiarezza una volta per tutte. Le mascherine della Protezione civile non arrivano perché ci sono troppi controlli, troppe regole, margini troppo bassi per chi le produce e per chi le importa, che preferisce dirottarle verso altri paesi. Come la Spagna, dove il prezzo finale è stato fissato a un euro. Risultato finale: questi paesi hanno le mascherine e noi no».
Ma Arcuri lo sa?
Contarina ripensa ai giorni bui: «I farmacisti si ammalavano e morivano perché costretti a lavorare senza protezione in situazioni drammatiche. Sì, perché le mascherine non le avevano nemmeno per noi». Non risparmia parole dure neppure Alessandro Albanese vicepresidente vicario di Sicindustria: «Queste mascherine sono un flop sotto gli occhi di tutti: farmacie a secco, approvvigionamenti a singhiozzo, distributori quasi fermi, importatori a corto di rivenditori dall’estero per il prezzo troppo basso imposto in italia e imprese che dopo essere state spinte dal governo a riconvertire le proprie produzioni si trovano adesso alle prese con costi che non riusciranno a coprire».
Questo delle aziende che si sono riconvertite è un caso controverso e doloroso, il caso del Comparto Moda. Ricorderete le aziende che furono invitate dal Governo, anche con un sostegno di 50 milioni, a riconvertirsi proprio per rifornire il paese di mascherine. E queste aziende si mossero velocemente , si riconvertirono davvero, investendo anche al di là dei finanziamenti. Mai immaginando che il prezzo di ogni mascherina sarebbe stato fissato a 0,61 euro.
Due mesi dopo il meccanismo si è miseramente inceppato. Gianfranco Di Natale, condirettore della Federazione che raggruppa le imprese del comparto, è quasi diplomatico: «Mi viene da dire che Arcuri è stato consigliato male…». Altro che, lo Stato in questi due mesi ha proprio abbandonato la strada delle «mascherine di comunità» che non sono veri e propri dispositivi medici, pur garantendo, se ben fatte, un livello di protezione sufficiente. E ha virato sulle mascherine chirurgiche che saranno importate dalla Cina fino al prossimo luglio e poi rimpiazzate da quelle prodotte in casa con 51 macchinari appena acquistati. «Siamo stati stimolati a creare un prodotto autarchico – riassume Di Natale -, fatto con semilavorati italiani e produzione italiana, e ora ci troviamo a competere oggi con i prodotti cinesi troppo spesso non certificati e domani con le mascherine di Stato». Bel capolavoro, anche questo targato Arcuri.
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