Giorgia Meloni
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DALLE elezioni regionali di Lazio e Lombardia arriva un messaggio di stabilità: le due regioni traino del Paese premiano la maggioranza di governo e lanciano Fratelli d’Italia come primo partito del sistema politico nazionale. Oggi sono 15 le regioni italiane governate dal centrodestra: numeri che parlano da soli. Senza dubbio, una grossa mano arriva dall’opposizione. Il Partito democratico è stato ritardato da un percorso congressuale lungo e faticoso ai limiti dell’agonia. L’impegno dei quadri per la conta interna ha sottratto energie alla campagna elettorale. La nave dem si è mossa in mare aperto in mancanza di un timoniere. Il gioco dei due forni – con il Terzo Polo nel Lazio, con il M5s in Lombardia – non funziona.
LA DÉBÂCLE DELLE OPPOSIZIONI
Il Pd subisce l’onda, in attesa di chiudere la pratica dell’elezione del nuovo segretario. A dispetto della sconfitta, però, il Pd, unico partito che rivendica uno spirito coalizionale, mantiene la sua posizione e conserva il ruolo di perno del centrosinistra. Viceversa, nessuno dei due concorrenti – Cinquestelle e Terzo Polo – appare in grado di rivendicare per sé la leadership. Il M5s a livello regionale continua a perdere voti rispetto alle elezioni politiche. Dire che il movimento è più adatto alla competizione nazionale è una magra consolazione. In verità, pure nei numeri, il partito di Conte sembra sempre ridotto a un piccolo partito radicale di sinistra, almeno dal centro in su. In Lombardia viene di fatto riassorbito dal Pd. Nel Lazio, dove ha governato con Raggi a Roma e con Zingaretti in Regione, il crollo è verticale.
Alessio D’Amato, il candidato Pd, accusa la linea disperata di Conte che ha sganciato il suo partito dalle forze con cui aveva governato il Lazio. Il ciclo grillino sembra ormai nella fase finale della parabola. Nemmeno possono rallegrarsi Azione e Italia viva che in Lombardia, con la candidatura forte di Letizia Moratti, speravano di dare la spallata definitiva all’egemonia del Pd. Obiettivo fallito: i due piccoli partiti liberali hanno pure perso voti rispetto alle elezioni politiche. E il progetto di «superare il bipopulismo di destra e di sinistra» va rimandato a data da destinarsi. Ha scritto ieri su Twitter il sindaco di Bergamo Giorgio Gori: «Possiamo a questo punto serenamente dire che la scelta del Terzo Polo di sostenere Letizia Moratti è stata una sciocchezza? Col maggioritario a turno secco si è competitivi solamente unendo tutto il centrosinistra (sì, pure i 5S). O lo capite oppure la destra vincerà ogni volta».
IL TRIONFO DI GIORGIA
Ovviamente, in mancanza di un’opposizione vera – che probabilmente attenderà almeno un altro anno, fino alle elezioni europee, per contarsi di nuovo – la maggioranza di governo gongola. Il dato più rilevante è certamente la riconferma di Fratelli d’Italia come primo partito italiano. La cosa stupisce meno nel Lazio, dove la tradizione della destra nazionale, sia a Roma che nelle province, è molto solida. Colpisce piuttosto il risultato in Lombardia, dove il partito di Meloni prende più della somma dei voti di Lega e Forza Italia, i due partiti che hanno fatto la storia del centrodestra nella regione. Con questo risultato, Giorgia Meloni consolida la sua leadership al governo e si conferma come la regina incontrastata della maggioranza.
La rivincita di Attilio Fontana, dopo la complicatissima vicenda della gestione della pandemia, è anche la rivincita di Matteo Salvini dopo le ultime sberle elettorali. Bisognerà capire se questo rilancio servirà per aprire vertenze all’interno della maggioranza di governo oppure per garantire la compattezza da posizione di maggior forza. Il voto di domenica spazza via il tentativo di Silvio Berlusconi di guadagnarsi uno spazio di visibilità criticando la premier per aver incontrato Volodymyr Zelensky. È evidente che il fondatore di Forza Italia voleva catturare il consenso di quella ampia porzione di italiani che non apprezza il coinvolgimento diretto dell’Italia nel sostegno all’Ucraina. Ma con Giorgia Meloni non c’è partita: nonostante i mal di pancia filorussi e filo-Putin del Cavaliere, la linea atlantista resta salda, anche perché costituisce, per la premier, il miglior passaporto per la sua credibilità in Occidente. Come ha scritto il Times poco più di una settimana fa, Giorgia Meloni è passata dal ruolo di potenziale “pericolo per l’Europa” a quello di “leader europea più popolare”. Il quotidiano britannico, come altre testate europee, ha semplicemente reso pubblico il clima positivo che, tutto sommato, nelle istituzioni comunitarie e nei mercati, circonda l’esperienza di Giorgia Meloni.
I RISCHI DIETRO L’ANGOLO
La premier gode di una discreta stima da parte degli omologhi europei: la fiducia che Draghi aveva manifestato nei suoi confronti quando disse che l’Italia avrebbe confermato i suoi impegni con l’Europa e non avrebbe deviato dalla strada intrapresa era ben riposta. In questo clima, rafforzato dalla vittoria del centrodestra nelle regionali, per Meloni sembra aprirsi un lungo ciclo di potere per il suo partito e di potenziale stabilità per il Paese. Le sue basi di partenza sono solide. E ci ha messo dieci anni per costruirle. Meloni deve però evitare cadute non necessarie, come le recenti polemiche con Macron. L’Unione europea si fonda da sempre sul rapporto privilegiato tra Francia e Germania, la diade che da sempre guida le istituzioni comunitarie.
Solo con Mario Draghi l’Italia è riuscita a svolgere un ruolo diverso di guida, alla pari con gli altri due Paesi fondatori. Meloni, però, non è Draghi. E farebbe bene a non scivolare su polemiche inutili. C’è tanto da fare. Attuare il Pnrr senza dare la sensazione – all’italiana – di voler prendere tempo. Fare le riforme necessarie per garantire al Paese almeno 10 punti di Pil in più. Sostenere le esportazioni nazionali con una serie di interventi di sistema. In attesa che l’opposizione riesca finalmente a costruire con serietà la sua agenda – serve anche questo – è necessario che il governo in carica raccolga la voglia di stabilità e di ripartenza che proviene anche dal voto di Lazio e Lombardia.
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