Luca Zaia
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A quattro anni dalla celebrazione del referendum per l’autonomia del Veneto e a ben sette anni dall’approvazione da parte dell’assemblea regionale di quattro proposte referendarie, una delle quali, cassata dalla Corte costituzionale, significativamente titolata “Per l’indipendenza del Veneto”, è utile e necessario fare un primo bilancio dei modesti risultati conseguiti e ragionare sulle difficoltà incontrate nel corso del negoziato che ha visto variamente impegnati ben quattro governi di diversa composizione politica.
Per quanto la politica possa interpretare come successi anche esiti di tutt’altro segno, e attribuire ad altri le responsabilità degli insuccessi, credo si possa dire che, sul piano dei risultati conseguiti, la “madre di tutte le battaglie” abbia mostrato limiti significativi che dovrebbero indurre a ragionare sulle cause e sui necessari aggiustamenti di approccio.
IL NEGOZIATO
Va riconosciuto comunque a questa iniziativa il merito indiretto di aver fatto uscire il regionalismo italiano dal cono d’ombra in cui era precipitato a causa di una innumerevole serie di scandali, non ultimo quello del Mose, con la riaffermazione del ruolo fondamentale delle autonomie locali nel concorso alle politiche nazionali e alla ripresa del Paese. La stessa gestione dell’emergenza Covid, pur dentro un altalenante quadro conflittuale alimentato da esigenze di schieramento, ha mostrato quanto sia stato importante il contributo delle Regioni nell’organizzazione delle campagne vaccinali e nel rafforzamento dei presìdi di sanità pubblica.
Va ricordato come il negoziato, improntato alla leale collaborazione, a partire dal confronto avviato dal sottosegretario Bressa negli ultimi mesi di vita del governo Gentiloni, abbia portato alla sottoscrizione di un “pre accordo” contenente i principi generali e la definizione di un numero limitato di materie da devolvere, condiviso, assieme al Veneto, anche dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna.
Dibattito ripreso nel corso di questa legislatura, dal governo Conte 1, in cui un’ipotesi di lavoro predisposta dal ministro Stefani ha impegnato ben tre sedute monotematiche del Consiglio dei ministri, fino al naufragio sulla spiaggia del Papeete ferragostano che ha travolto quella compagine governativa.
MATERIE IN DISCUSSIONE
La questione ha avuto una sua centralità anche durante il governo Conte 2, in cui il ministro Boccia, fautore di una convergenza di tutte le Regioni attorno a una norma-quadro, attenta sia al trasferimento delle competenze, sia alla dimensione perequativa e solidale fra le diverse aree del Paese. Norma-quadro indicata fra gli obiettivi anche dal governo Draghi il cui dibattito è inevitabilmente ancora in fieri a causa della pandemia e della priorità necessariamente assegnata al Pnrr.
Alla situazione di stallo negoziale hanno concorso alcuni limiti della riforma costituzionale del Titolo V del 2001, e in particolare l’aver considerato fra le materie concorrenti, di cui all’articolo 117 della Costituzione (solo per citare alcuni commi) “le grandi reti di trasporto e di navigazione”, così come “la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, che già nella definizione indicano l’ambito necessariamente nazionale delle relative politiche e, dunque, l’impossibilità di una loro totale devoluzione alle regioni. Per questi aspetti, così come per altre materie su cui è stata richiesta la competenza regionale esclusiva, una discussione che non si limiti all’onnicomprensività della parola “autonomia” e alle suggestioni romantiche a cui rimanda, probabilmente farebbe bene al Veneto e a tutte le sue articolazioni sociali, economiche e culturali, fino a oggi assai poco coinvolte nell’analisi degli aspetti di merito e dunque dei vantaggi davvero conseguibili.
IL CONSENSO
Allo stesso tempo, una comunità che rivendichi una maggiore autonomia, nell’ambito della legge e in un quadro di unità nazionale, non può trascurare il fatto che il conseguimento dell’obiettivo passa attraverso il raggiungimento di un largo consenso parlamentare. La Costituzione afferma infatti che «La legge è approvata dalla Camera a maggioranza assoluta dei componenti», il che rimanda non solo al necessario largo consenso politico, ma anche alla sua variegata articolazione territoriale.
Detto più esplicitamente, senza il consenso dei parlamentari eletti in quasi tutte le regioni, e in particolare nelle regioni meridionali, il traguardo rischia di diventare un miraggio.
Se a questo si aggiunge il complicato processo di formazione dell’ “Intesa” fra lo Stato e la Regione, e il ruolo del Parlamento nella formazione dell’atto, si può ragionevolmente cogliere l’importanza fondamentale della costruzione del consenso e di come un racconto da primi della classe, che ha caratterizzato il dibattito pubblico nel Veneto, spesso inutilmente conflittuale e liquidatorio nei confronti di altre regioni, non abbia aiutato nell’individuazione delle soluzioni possibili.
A fronte e nonostante l’impegno dei diversi governi appare del tutto evidente che le difficoltà incontrate nella costruzione di una maggioranza parlamentare in grado di fornire una risposta positiva alla domanda di autonomia differenziata rimandino ad aspetti diversi da quelli squisitamente tecnici e costituzionali e attengano al racconto politico che ha caratterizzato gli ultimi anni.
La proposta dell’autonomia differenziata, definita da Zaia «la madre di tutte le battaglie», indicante come obiettivo primario il recupero del cosiddetto “residuo fiscale” (come se la fiscalità riguardasse i territori anziché i cittadini), con il presidente che in un’intervista, replicando a suggestioni catalane, si dice pronto anche a «farsi arrestare», ha generato nelle regioni del sud una contro narrazione, da “secessione dei ricchi”, sentimento già latente che inevitabilmente ha finito per orientare, assieme ai cittadini, anche i rappresentanti eletti in quei territori.
La lettura dei quotidiani del sud è a questo proposito esemplare.
In questo senso anche l’insistenza di Zaia sulle cosiddette 23 materie (tutte, non una di meno, indipendentemente dal valore delle stesse), è apparsa come un’indiretta affermazione di una sovranità distinta dal resto del Paese, una sorta di “specialità”, diversa dalla differenziazione, non prevista dall’arrticolo 116 della Costituzione.
L’ORA DI CAMBIARE REGISTRO
Liberare il campo da tutte le tossine immesse in questi anni, affrontare questioni irrisolte e rimaste sotto traccia come l’indipendentismo, entrare pubblicamente nel merito delle competenze richieste e sugli effetti attesi, diventa essenziale per allargare l’area del consenso nel Paese ed evitare, allo stesso tempo, il rischio di alimentare aspettative continuamente frustrate fra quanti hanno creduto all’autonomia come a una sorta di anno zero del calendario veneto.
Quando l’assessore regionale Marcato afferma che sarà difficile raggiungere l’autonomia anche se governasse il solo centro destra, coglie un punto essenziale che attiene al patto costituzionale e allo stesso tempo alla natura dei partiti di quella coalizione e ai materialissimi interessi in gioco.
Per questo, a quattro anni di distanza, è venuto il momento di cambiare registro. È tempo per il Veneto tutto di uscire da una logica rivendicativa e isolazionista per assumere una responsabilità in concorso con le altre Regioni per una ripresa economica dell’Italia e la ricucitura delle fratture sociali che covano sotto traccia.
E allora, per prima cosa, per favorire una ripresa vera e condivisa del dibattito, il campo va liberato dal diktat sulle 23 materie. Così come fatto dall’Emilia Romagna, e in parte anche dalla Lombardia, ci si concentri sugli spazi di autonomia vera che è possibile conquistare qui e ora, sapendo che si tratterà di un allargamento delle responsabilità, che come dimostrano le Regioni a Statuto speciale, non si otterrà tutto in una sola volta.
Ex sindaco di Padova
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