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Quasi 360 euro per i trasporti, 226 per gli alloggi, 260 per gli esami diagnostici: sono solo alcune delle spese che, in media, un paziente oncologico ogni anno deve affrontare per inefficienze del sistema sanitario pubblico: dalle lunghe liste di attesa alla carenza di centri specialistici che spingono migliaia di ammalati ai “viaggi della speranza”.
In media, ogni anno la spesa sfiora i duemila euro, per la precisione 1.841, per effettuare esami diagnostici e visite specialistiche, sottoporsi a terapie salvavita e vedersi erogati trattamenti quali la psicoterapia e il supporto nutrizionale che concorrono ad aumentare i tassi di sopravvivenza e la qualità della vita dei malati di cancro. Il tutto, in molti casi, a centinaia di chilometri da casa, aspetto che concorre ad aumentare l’aggravio economico per i pazienti e le loro famiglie.
I NUMERI DELL’INDAGINE
È quanto emerge dalla seconda edizione dell’indagine “I costi sociali del cancro: valutazione di impatto sociale ed economico sui malati e sui caregiver” promossa dalla Federazione italiana delle associazioni di volontariato in Oncologia (Favo) e realizzata da Datamining in collaborazione con l’Associazione italiana malati di cancro, parenti e amici (Aimac), l’Istituto nazionale dei tumori di Milano e quello di Napoli (Fondazione Pascale).
I dati confermano come il Servizio sanitario nazionale non sia in grado di assicurare tempestivamente l’accesso agli esami diagnostici, alle cure oncologiche e al sostegno sociale a tutti i pazienti che ne abbiano bisogno. E la situazione risulta peggiorata a causa delle lunghe liste d’attesa.
L’indagine campionaria ha coinvolto quasi 1.300 pazienti in trattamento terapeutico che avevano ricevuto una diagnosi tra il 2011 e il 2018. Dalle risposte fornite dai pazienti alle 38 domande poste per quantificare le spese (mediche e non) affrontate direttamente per colmare carenze e ritardi del Servizio sanitario nazionale, è emerso che in media ogni paziente oncologico italiano spende ogni anno 1.841 euro per ricevere prestazioni sanitarie che dovrebbero essere a carico dei servizi sanitari regionali.
La voce che più sembra incidere sulle spese sostenute direttamente dai pazienti è quella relativa agli esami diagnostici (riportata dal 51,4% di loro). A seguire: il costo dei mezzi di trasporto (45,1%), le visite specialistiche successive alla diagnosi (45,1%), l’acquisto di farmaci non oncologici (28,5%) e le spese per l’alloggio lontano dalla propria residenza (26,7%).
L’indagine ha evidenziato, inoltre, che a incidere sulla spesa per la diagnostica (in media: 259 euro l’anno) potrebbero essere anche esami prescritti in maniera inappropriata. Una situazione che danneggia soprattutto i pazienti del Sud che, spesso, sono costretti a trasferirsi al Nord per una diagnosi o terapia. Infatti, come emerge dal report aggiornato “Dove mi curo?” della Ropi (Rete oncologica pazienti italiani), per curarsi da un tumore un cittadino del Sud è costretto a fare centinaia di chilometri e rivolgersi a un ospedale del Nord.
IL GAP TERRITORIALE
Il nocciolo del problema resta sempre lo stesso: il forte gap tra le due aree del Paese. Infatti è nelle Regioni settentrionali che il sistema sanitario pubblico garantisce il superamento dei “volumi soglia” per gli interventi su tutte, o quasi tutte, le 17 patologie oncologiche considerate nel rapporto. Al Sud, invece, solo tre Regioni, Puglia, Campania e Sicilia, si avvicinano a coprire le principali patologie. In sostanza, l’offerta chirurgica si concentra al Nord e questo non può che favorire i “viaggi della speranza” che, a loro volta, arricchiscono le casse della sanità settentrionale a discapito di quella del Mezzogiorno. Un circolo vizioso.
La mappa analizza 17 diversi tipi di cancro. Ad esempio, i 15 migliori centri che hanno alti volumi di operazioni per il tumore della mammella sono al Centro-Nord. Al Sud sono davvero pochi i centri di eccellenza, quelli che riescono a rientrare almeno nella top ten.
Nel dettaglio, la mappa della Ropi segnala per il tumore alla mammella l’Humanitas di Misterbianco, Catania (ottavo posto con 739 interventi), per il cancro al polmone il Monaldi di Napoli (decimo posto con 281 interventi), per il colon-retto il Policlinico di Bari e l’ospedale Panico di Tricase, Lecce (quarto e nono posto con 301 e 179 interventi), per la prostata l’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari (sesto posto con 305 interventi). Nella classifica relativa alla chirurgia del tumore dello stomaco, ad esempio, non ci sono strutture del Sud nelle prime 10 posizioni.
D’altronde, basta pensare che mediamente ogni anno circa 27mila pazienti oncologici residenti al Sud si spostano al Nord per curarsi. Nel 2017, ad esempio, furono 27.813, nel 2018 sono passati a 26.657. Una forbice che continuerà a esistere sino a quando le Regioni del Nord continueranno a ricevere una fetta della torta più ampia nella ripartizione del Fondo nazionale sanitario.
I COSTI PER LE REGIONI
Anche perché la cosiddetta mobilità passiva costa in termini economici alle Regioni meridionali: basti pensare che nel 2018 la Puglia ha speso 180 milioni di euro per rimborsare Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana per le cure prestate ai propri residenti. La situazione più difficile è quella di Calabria e Molise: nel 2018, 5.976 calabresi ammalati di tumore sono stati costretti a “emigrare” al Nord per curarsi, il 37,4% del totale dei pazienti oncologici. I molisani che sono stati assistiti in strutture di altre regioni sono stati 1.278 , il 41,5% del totale. Da brividi anche i numeri della Basilicata: nel 2018, ben 1.555 lucani si sono spostati per curarsi, il 30,2%.
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