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La presidente del consiglio Giorgia Meloni in passato aveva presentato una legge per i regionalismo differenziato
Finora ha preferito mantenere un profilo basso. Non esporsi. Non è un mistero, però, che l’autonomia differenziata la Meloni l’abbia sempre vista come il fumo negli occhi, non poteva essere diversamente, del resto, per chi, insieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa, ha fondato un partito che non a caso si chiama Fratelli d’Italia. L’unità nazionale prima di tutto.
Non c’è da stupirsi, dunque, se nella XVII legislatura proprio lei, il presidente del Consiglio, abbia presentato una proposta di legge di modifica costituzionale (atto 1953) insieme all’attuale sottosegretario agli Esteri Edmondo Cirielli, per smantellare il cosiddetto “regionalismo differenziato”.
REGIONALISMO DIFFERENZIATO: IL MELONI-PENSIERO
La proposta è un condensato del Meloni-pensiero, di quella Destra sociale alla quale la premier ha sempre fatto riferimento: la convinzione che l’inefficienza dell’attuale assetto amministrativo non dipenda solo da carenze organizzative e legislative. La responsabilità principale della “burocratizzazione regionale” viene individuata proprio nella riforma che porta il nome del ministro che ora vorrebbe forzare la mano per imporre la “secessione dei ricchi”, quel Roberto Calderoli che firmò la modifica del Titolo V.
Nel testo – a modo suo visionario – si dice che «vanno evitate forme di neo-centralismo regionale o la proliferazione di ulteriori enti o agenzie regionali che possano rivelarsi meno funzionali dell’ente provincia di cui si prevede la soppressione». La mente va a certi “governatori” e alla moltiplicazione dei carrozzoni.
IL NODO DELLA REGIONI A STATUTO SPECIALE
«Le Regioni a statuto speciale – si legge – sono sorte, in ragione di particolari contingenze storiche e socio-culturali che oggi si ritengono superate, non essendo più giustificabile una così diversa e privilegiata distribuzione delle risorse rispetto alle regioni a statuto ordinario». Con un richiamo alla «necessità di tutelare l’unità giuridica o economica e, in particolare, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».
«Sarà lo Stato – si legge ancora – e non più il governo, a potersi sostituire alle Regioni e agli enti locali nell’esercizio delle funzioni, non solo di natura amministrativa, ma anche di natura legislativa: ovviamente, sempre e comunque nel rispetto dei princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà. Affollamento istituzionale, distorta e generosa interpretazione del principio del pluralismo istituzionale affermato dall’articolo 5 della costituzione».
FRANTUMAZIONE ILLOGICA
«Costante frantumazione delle articolazioni funzionali comunità montane e collinari, centri per l’impiego, distretti industriali, aree di sviluppo industriale, ambiti territoriali, senza che siano state ricondotte a omogeneità da un coerente disegno unitario del sistema autonomistico». Con questo linguaggio il partito del presidente del Consiglio bocciava le deviazioni del regionalismo in salsa leghista.
Nella tradizione della Destra italiana, del resto, non c’è stata mai particolare simpatia per le Regioni a statuto speciale, la qual cosa è apparsa evidente persino nella recente campagna elettorale dove la Meloni polemizzò in più di un’occasione con gli autonomisti irritando il leader della Volkspartei Philipp Achammer.
«L’autonomia in alcuni casi è servita a tutelare alcuni e non altri – puntò il dito la Meloni nel settembre scorso – Chi non ama il Tricolore farebbe bene a rinunciare ai milioni di Roma».
Ma questo è un altro discorso. Torniamo alla proposta di legge, datata 15 gennaio 2014. Alla riforma costituzionale del 2001: «Lo Stato ha conservato competenza legislativa su un numero limitato e tassativo di materie riguardanti gli enti territoriali (legislazione elettorale, organi e funzioni fondamentali dei Comuni, delle province e delle città metropolitane, spettando per il resto alla competenza legislativa regionale».
IL DISEGNO DI GIORGIA MELONI E IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO
L’esatto contrario, quindi, di quello che ora chiedono i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna che vorrebbero gestire materie attualmente di competenza statale in settori nevralgici come Scuola e Trasporti pubblici.
Il federalismo che piaceva a Giorgia – al quale, al di là dei patti elettorali con la Lega, forse fa ancora riferimento – non passava dalle Regioni, si realizza attribuendo «ai Comuni ulteriori funzioni amministrative; disciplinando gli ambiti territoriali minimi cui condizionare l’attribuzione di funzioni; le forme associative e di cooperazione; politiche di fusione tra municipalità di dimensione modesta».
In quanto a quello che Meloni e Cirielli definiscono il cosiddetto “regionalismo differenziato” la bocciatura è totale: «Ha generato una proliferazione di enti territoriali intermedi a geometria variabile».
Si prevedeva l’abolizione delle province entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale. Con una rivoluzione del concetto di autonomia, una riarticolazione territoriale politico-amministrativa. Da qui la proposta di costituire, in sostituzione delle attuali Regioni, province e confini, 36 nuove regioni, aree metropolitane, comunità territoriali, polarità urbane. E due “Padanie”, una occidentale, una orientale. Con buona pace di Calderoli che forse ne vorrebbe una sola, unica e indivisibile. Come l’Italia, appunto.
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