Sergio Mattarella e Mario Draghi
4 minuti per la letturaI SEGNI di scollamento sono evidenti, quasi clamorosi. Testimoniano che il clima di appeasement che aveva favorito l’allestimento di una maggioranza di quasi larghe intese – fino a quel momento considerata un distillato di pura fantapolitica – a supporto dell’investitura di Mario Draghi da parte di Sergio Mattarella, si è esaurito. Pensare che ritornerà va oltre l’ottimismo della volontà.
Le forze politiche che formalmente appoggiano SuperMario in realtà appaiono traguardate alla partita del Colle e subito dopo a studiare il posizionamento migliore in vista delle elezioni politiche. L’atmosfera è così fibrillante che a invocare il pericolo di elezioni nel 2022 non è Renzi il Guastatore bensì un politico saggio, prudente e navigato come Luigi Zanda. Segno che davvero la situazione ha preso una brutta piega.
Ma che elezioni sarebbero quelle della prossima primavera? Indipendentemente da chi arriverà al Quirinale – ed è una variabile in realtà fondamentale – se ha ragione il leader Pd Enrico Letta per cui non si cambierà la legge elettorale, sarà uno scontro che ancora una volta priverà i cittadini del potere di scegliere i propri rappresentanti e soprattutto costringerà a coalizioni buone forse (meglio ripeterlo: forse) per vincere ma assolutamente non in grado di governare.
Sia il centrodestra che il centrosinistra, infatti, mancano di un disegno comune per il Paese e dell’affidabilità per gestire il Pnrr. Per non parlare dei riferimenti europei, dove ognuno va per conto suo e l’arrivo del M5S nel Pse è visto da settori non trascurabili della sinistra nazionale ed europea come un vero e proprio obbrobrio. Per non parlare dei centristi variamente collocati: ottimi generali privi di truppe adeguate. La vocazione maggioritaria che per decenni è stata inseguita e ha come fondamento un meccanismo di voto che favorisce i cartelli elettorali a scapito delle identità e del comune sentire, si ritroverebbe infilata a forza negli strettissimi panni di due schieramenti il cui cemento non è l’amalgama interno bensì l’avversione per l’altro.
Su questo basamento, che già com’è è l’esempio più eclatante della crisi di sistema, si è poggiato un rapporto sbilenco e improprio tra SuperMario e i partiti. L’emergenza in primo luogo vaccinale cui si aggiunge quella dell’uso appropriato del Recovery e le spinte patologiche per sfarinare la coesione sociale, hanno prodotto un equilibrio apparentemente solido ma privo del necessario legame fiduciario. I partiti hanno dovuto accettare un presidente del Consiglio alieno e incontrollabile e invece di approfittare del forzoso momento di bonaccia per rigenerarsi e ritrovare il senso del loro ruolo, hanno fatto buon viso a cattivo gioco esclusivamente nell’attesa di tornare ai vecchi vizi. Draghi ha accettato la missione affidatagli da capo dello Stato con spirito di servizio, competenza e autorevolezza, ottenendo risultati notevoli. Ma si è come imposto ai partiti, rifiutando operazioni di mediazione e avendo come bussola solitaria e proprietaria il ritmo di marcia da lui stabilito. Fino a quando non si è accorto che i suoi compagni di strada si dilettavano soprattutto a segare la corda che li teneva uniti.
Se davvero si precipitasse nelle elezioni anticipate, la campagna elettorale – da svolgersi con buona dose di irresponsabilità nel quadro di una possibile recrudescenza della pandemia e sotto lo sguardo stupefatto della Ue – minaccerebbe di essere improntata a sfiducia e smarrimento. Rendendo la disaffezione elettorale ancora più endemica. A chi gioverebbe? Ben sapendo per un verso che i partiti sono quelli che sono, ma senza di loro la democrazia impallidisce fino a sparire. E per l’altro che nessun demiurgo può da solo salvare tutto e tutti. Per non apparire stranianti, si può declinare il ragionamento sovrapponendolo con qualche inevitabile brutalità alla partita per la presidenza della Repubblica.
Se Draghi viene eletto, si crea la voragine della presidenza del Consiglio: nessuno può prendere il posto di SuperMario eppure qualcuno dovrà farlo. È evidente che per superare l’impasse dovrà essere steso un accordo politico di forte spessore e stretto vincolo tra chi avrà spedito Draghi al Quirinale per garantire al nuovo inquilino di palazzo Chigi una navigazione non troppo accidentata fino al termine della legislatura. Se invece verrà eletto un altro, servirà un grandissimo sforzo, anche in questo caso da parte dei partiti che si saranno coalizzati per votare il successore di Mattarella, per convincere Draghi a rimanere in sella, consegnando nelle sue mani quel tesoretto di fiducia che finora, al di là dei riconoscimenti unanimi e po’ farisaici, è sostanzialmente mancato.
Traduzione ancora più secca? Eccola. Se al Quirinale ci va SuperMario è un grosso problema. Se non ci va, è un problema ancora più grande: gigantesco.
Davvero un bel ginepraio, dove l’arrivo alla guida dell’esecutivo di un civil servant doveva essere la soluzione e, senza voler scrivere sulla lavagna i buoni e i cattivi, si è paradossalmente rovesciata nel suo contrario. Col risultato che la crisi di sistema italiana invece di scemare potrebbe addirittura acuirsi mettendo fuori gioco la personalità più prestigiosa e fattiva di cui dispone il Paese. Si può ancora porre riparo ritrovando lo spirito unitario e il senso di responsabilità che ha fatto ala all’insediamento a capo del governo dell’ex presidente della Bce. Chiudendo le orecchie alle sirene del tanto peggio tanto meglio.
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