Sergio Mattarella e Mario Draghi
4 minuti per la letturaIL GOVERNO non ha finora mai mancato una scadenza di quelle concertate con la Ue. È in piedi per fare e non per durare: se così non fosse, imboccherebbe la china discendente. Il resto, tutto il resto, letteralmente, “non conta”. A partire dal chiacchiericcio sul Quirinale, offensivo per il capo dello Stato in carica. Al dunque, davanti ad un quadro economico a tinte rosa, che registra note positive sul disavanzo, sul debito pubblico, sulla crescita, Mario Draghi non fa che ripetere ciò che tutti sanno ma a volte strumentalmente preferiscono sottacere: siamo qui per fare le cose, le stiamo facendo con risultati non indifferenti e non scontati, proseguiamo nell’azione con il cronoprogramma concordato fin quando vorrà il Parlamento.
Tutto a posto, tutto finito? Sarebbe bello e magari anche giusto: purtroppo non è così. Piuttosto le confermate intenzioni di SuperMario sono il punto di partenza di una vicenda che ha molte tappe ma è costretta a snodarsi in tempi definiti. Due in particolare: tra 150 giorni o giù di lì bisogna eleggere un nuovo presidente della Repubblica o confermare quello che c’è; tra 15 mesi la legislatura arriva alla scadenza naturale e bisogna aprire le urne delle elezioni politiche.
Nel percorso delineato da questi due paletti vive e opera il governo Draghi. Il presidente del Consiglio fa ciò che deve fare facendolo anche bene: prende di petto i problemi e cerca di risolverli sapendo di non vivere in un periodo di bonaccia bensì scivolando sulle montagne russe dello scarso amalgama tra i partiti che compongono la sua larga ed eterogenea maggioranza.
È concentrato suoi suoi compiti e sa perfettamente che il buon esempio arriva da chi ha la responsabilità di presiedere l’esecutivo. Ma allo stesso tempo non può pensare di procedere indossando dei paraocchi. Le tensioni, la discussione, il confronto, lo scontro su come attrezzarsi nei prossimi mesi fa parte del Dna della coalizione necessitata che fa da contorno all’inquilino di palazzo Chigi. E questa situazione non vale solo per il calendario politico-istituzionale che tanti compulsano in un crescendo nevrotico, quanto anche per il varo dei provvedimenti allo studio. Non bastano le parole a soffocare le fibrillazioni pur se le parole in politica sono fondamentali.
Un esempio fra tutti: sulle scadenze per i referendum, i ministri leghisti si astengono nella seduta del Consiglio. Niente di scandaloso ma la conferma di una prassi scorretta e di un focolaio di tensioni che è sempre attivo. Dove porta tutto questo? Se fosse Draghi a rispondere direbbe: porta alla delega fiscale da varare entro la prossima settimana e subito dopo all’allestimento della legge di Bilancio, impegno ineludibile di qualunque governo. Giusto. Ma il primo a sapere che non basta, che considerare l’esecutivo una sorta di faro, immobile e che illumina, mentre tutto intorno i marosi impazzano è fantastico se si tratta di scrivere un romanzo; molto meno rutilante se si tratta di affrontare giorno dopo giorno le emergenze nel cui poco commendevole elenco finisce – ma stavolta è positivo – la sicurezza sul lavoro con il devastante bilancio di morti cosiddette bianche ma che sono nere per la vergogna e l’esecrazione che a volte determinano in un quadro di scandalosa ipocrisia e sottovalutazione.
Non dovete chiedere a me di Quirinale ed altro, non sono la persona giusta, ripete SuperMario. Vero e ineccepibile. Come è vero e inevitabile che sarà tutt’altro che indifferente conoscere le intenzioni del presidente del Consiglio riguardo i due paletti già descritti. Perché da come deciderà Draghi dipenderà lo svolgimento della parte finale della legislatura e l’aggiornamento delle biografie dei capi di Stato italiani. Anzi: quel tipo di decisione orienterà il comportamento e le scelte delle forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione. Draghi lo sa benissimo e benissimo fa a procedere con lo sguardo fisso sull’azione di governo. Ma ad un certo punto inesorabilmente tutte le carte dovranno essere scoperte, e sia lui che gli altri protagonisti politici sanno che quella in mano al premier è un asso. Che una volta calato sul tavolo farà la differenza.
C’è tuttavia un altro aspetto, su queste colonne più volte richiamato, che non riguarda il Palazzo bensì quella che viene chiamata società civile. Sappiamo tutti che uno degli aspetti più rilevanti e perniciosi delle difficoltà italiane riguarda la scarsa capacità della politica di essere all’altezza degli impegni che le competono. Ma abbiamo anche visto che ogni volta che un pezzo della società immagina o addirittura pretende di svolgere compiti di supplenza, il risultato è fortemente negativo. E’ accaduto all’inizio degli anni ‘90 quando l’inchiesta Mani Pulite spazzò via i partiti storici del dopoguerra, divenuti per loro responsabilità e cecità anchilosati e autoreferenziali, con aspetti corruttivi inaccettabili. Non può accadere con gli industriali che vogliono Draghi immobile dov’è indipendentemente dalle condizioni politiche che lo circondano. Al contrario è alla politica tanto vituperata ma fondamentale in un sistema democratico, stabilire chi deve detenere il potere, in che forme e per quanto.
Ognuno adempia dal proprio dovere, è il sotterraneo refrain che ripete Draghi in ogni conferenza stampa. Ottimo e abbondante suggerimento.
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