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Il Consiglio superiore della Magistratura

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MENTRE va avanti con estrema lentezza la riforma Cartabia che per quanto ridotta rappresenta comunque il giro di boa dopo il peggio del peggio dalla riforma Bonafede, la giustizia italiana seguita a dare spettacolo e non dei migliori. Al centro del disastro, di nuovo, la procura di Milano dove il Csm è intervenuto per contraddire per rendere inefficaci le decisioni del procuratore capo Greco, stabilendo che il pm Sergio Spadaro non debba essere rimosso da Milano e che non ci sia alcun inquinamento ambientale che suggerisca un tale provvedimento. Come se non bastasse e già lo sappiamo, la procura di Brescia stagione indagando su quella di Milano, mentre il figlio del procuratore Borrelli ha preso le distanze da Greco che era stato ai tempi di mani pulite il delfino del padre. Cerchiamo di ricapitolare brevemente per capire di che cosa stiamo trattando.

Il pubblico ministero Spadaro era titolare dell’inchiesta sulle rivelazioni fatte dall’avvocato Amara che contengono un racconto estremamente grave sulla situazione giudiziaria in generale. In quel racconto si parlerebbe anche di una non meglio specificata loggia Ungheria di cui non si capisce se dovrebbe o no far parte della massoneria o se si tratterebbe soltanto di una accolita di persone che coltivano interessi di carriera comuni e in cui ci sarebbero determinate carriere, assegnazioni di inchieste, epiloghi di indagini. Di questa confraternita secondo quanto avrebbe testimoniato l’avvocato Amara farebbero parte non soltanto dei magistrati ma anche avvocati, giornalisti, e qualche membro delle forze dell’ordine e forse dei servizi segreti ma non se ne sa molto di più. Il procuratore Spadaro decise di venire a capo di questa faccenda e controllare parola per parola le dichiarazioni di Amara. Ma si è visto sottrarre il fascicolo dal suo capo il procuratore capo Greco.

A questo punto Spadaro, sentendosi abbandonato e vedendo a rischio la sua attività di fedele servitore dello Stato ha pensato di rivolgersi a Piercamillo Davigo membro del CSM a Roma per non far affossare l’inchiesta. E gli consegnò clandestinamente il dossier. Poi gli eventi sono precipitati nel senso che non è accaduto nulla ma con alcune curiose varianti. Davigo avrebbe parlato del dossier Amara facendone riferimento come la prego ma senza compiere alcun atto preciso. In compenso lo stesso dossier sarebbe stato fotocopiato e inviato anonimamente a due giornalisti di due importanti testate italiane i quali, fedeli al motto  “noi altri giornalisti pubblichiamo tutto non importa che cosa ci sia dentro perché il nostro dovere mestiere”, si sono tenuti il malloppo nelle loro case senza far trapelare una parola.

È nata così un’inchiesta anche su ciò che ha fatto Davigo, se è stato lui o no a dare questo dossier. Brutta storia brutta faccenda.  Adesso il Csm che si sente fortemente sotto la lente di ingrandimento, è in stato d’accusa davanti all’opinione pubblica per le numerose rivelazioni che  negli ultimi anni non hanno certo contribuito a migliorare la sua immagine, ha deciso di intervenire con un gesto clamoroso: contraddire Greco, che è già sotto inchiesta dalla procura di Brescia, dare ragione di fatto a Spadaro e ammettere quindi che la questione del dossier Amara è grave, importante, che finora è stata trattata in una maniera che non può considerarsi accettabile quantomeno per l’opinione pubblica. Questa vicenda come abbiamo detto e l’esempio ultimo ma non unico di una situazione della giustizia in crisi e in alcune procure come quella di Milano si direbbe ad un crollo verticale della dell’immagine e degli uomini che ora gestiscono.

Gli uomini sono quelli che si rifanno ancora all’antico pool originario di Borrelli, quello che per intendersi decapitò la prima Repubblica attraverso l’inchiesta Enimont, e  che si concluse con innumerevoli processi, pochissime insignificanti condanne, e una terribile quantità di vite umane perdute per suicidio o morti misteriose come quella di Raul Gardini che dopo aver recapitato una valigetta al Palazzo delle Botteghe Oscure, dove aveva sede il partito comunista italiano, tornato a casa ci sarebbe fatto una rigenerante doccia e poi sdraiato sull l’accappatoio si sarebbe distrattamente sparato alla tempia. Per non dire di Emanuele Cagliari presidente dell’ENI che si sarebbe suicidato girando la testa in un sacchetto di plastica azione che è del tutto impossibile effettuare come suicidio perché qualsiasi persona voglia usarla al fine di morire non riesce a portarla a termine si strappa via il tasto il sacco dalla testa. Cagliari no.

La storia è molto lunga e per nulla trasparente. Non sappiamo neanche dire se oggi siamo gli epigoni di quelle vicende ma certamente siamo nel solco di una brutta storia, che ci fa apparire all’Europa indegni di ricevere i fondi degli altri paesi europei che vantano una tradizione più civile nella gestione della giustizia dei cittadini. Adesso abbiamo questa piccola riforma Cartabia di cui come abbiamo detto possiamo esserci certi che quantomeno si tratta del punto di svolta. Non risolve tutto anzi risolve pochissimo. Ma quel poco è buono: viene stabilita la improcedibilità dei processi penali protratti oltre i limiti intendendosi che la prescrizione illimitata è una colpa del magistrato, che viene meno all’obbligo di concludere in tempo la sua inchiesta poiché non è ammissibile in nessuna civiltà moderna e democratica che un cittadino si veda inquisito e processato a vita senza via di scampo neanche quando viene dichiarato innocente in primo grado, e neanche il secondo. 

La riforma Cartabia ha interrotto quella linea perversa, ha salvato un po’ capra e cavoli introducendo i limiti dei processi che contengono elementi di mafia, terrorismo e delitti sessuali, cosa che non da tutte le garanzie ai cittadini dal momento che qualsiasi magistrato che avrebbe  interesse a protrarre un processo per molti anni, non deve far altro che includere uno di questi reati seppure in forma ipotetica tra le accuse rivolte salvo poi essere smentito dalla sentenza. L’abbiamo visto recentemente col processo alla mafia romana, trattato come un caso di mafia si sia  ridotto a un caso di banale criminalità urbana e dunque con l’abuso di tutte le norme, i  riferimenti giudiziari che fanno capo ai processi di mafia. Ma siamo già un pezzo avanti è questo l’importante. Abbiamo avuto la fortuna o il piacere di vedere il ministro Bonafede  parlare contro sé stesso contro la propria cosiddetta riforma e votare contro ciò che lui stesso aveva fatto. Bella soddisfazione.

I Cinque Stelle sono divisi in micro-stelline sparse, anche se adesso Giuseppe Conte ha i titoli formali per guidare il movimento. La questione della giustizia è appena nata dal punto di vista della sua riforma perché bisogna ora attendere la questione dei referendum, se si faranno, quando e con quali risultati. Oppure se il Parlamento avrà la forza,  il coraggio di riprendere in mano tutta la materia e legiferare prima del referendum in maniera più organica e completa.

Potrebbe accadere ma nel dubitiamo: tutto è assolutamente dubbio, salvo il fatto che la presenza di Draghi costituisce ancora una volta una garanzia e proprio queste ultime vicende giudiziarie lo dimostrano dal momento che l’enorme macchinario farraginoso ha cominciato a muoversi e sia pur cigolando la macchina ha ripreso seppur lentamente a funzionare.


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