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L’ITALIA prima beneficiaria del Recovery Fund, lo deve alla folgorazione che ha illuminato due aspetti da oltrae venti anni tanto evidenti quanto accuratamente ignorati. Il primo – noto e archiviato – il Mezzogiorno: area del più esteso e ostinato ritardo economico dell’ Unione. Un problema interno, si dirà, che tale non è alla luce del secondo motivo di riflessione, ancor più eluso ed oscurato: nel 1995 l’ Italia registrava un reddito pro-capite pari al 125% della media UE a 28, dal 1998 inizia la discesa fino al 95% nel 2019 cumulando, in aggiunta, una perdita assoluta di oltre mille euro, caso unico – eccezion fatta per la Grecia- nella UE.
Queste dinamiche non si spiegano con il cedimento del Sud, bensì con il rallentamento delle altre regioni, prime tra tutte Lombardia, Emilia Romagna e Veneto che – ancora sopra la media UE – iniziano ad arretrare molto prima del 2008 perdendo decine di punti di Pil pro capite e di posizioni nella graduatoria delle 280 regioni UE.
Intanto Umbria e Marche sono arrivate, altre ancora sono in cammino per accedere alle cure delle politiche di coesione (Liguria, Piemonte, Toscana, Friuli Venezia Giulia). In altri termini, l’Italia viaggia spedita verso lo status di Paese in progressivo ritardo di sviluppo; prospettiva che giustifica l’ allarme dell’ Unione. Lo storico “divario interno” è la minore delle questioni; poca cosa rispetto alla “novità-vecchia” del rapido declino del Centro Nord e al paradosso -duro da digerire- che per disincagliare il “Titanic Italia” occorre assolutamente attivare il “secondo motore”: il Sud, spento da più di venti anni.
Le ex locomotive insistono a chiedere “autonomia premiale”, a lamentare la “palla al piede” che rallenta i “forti”, ma dati ultraventennali – confermati dal ministro di turno in audizioni parlamentari- certificano quanto intensamente il crollo del Mezzogiorno sia alimentato dalle dinamiche squisitmente acquisitive – spesa storica docet – delle aree forti che producono il rarefarsi del loro principale mercato di sbocco, quello interno del Sud, non compensato dagli avanzi di bilancia commerciale assicurati dall’ export.
Ancora dieci-quindici anni e, al ritmo attuale, la storica Questione sarà risolta dal concorso delle dinamiche demografiche, economiche, sociali: ce lo dice l’ISTAT e, tardivamente e timidamente la Banca d’Italia osserva la lenta eutanasia. Dovrebbe essere chiaro che perderemo la guerra se ci si limita a puntare all’ obiettivo della Resilienza (manutenzione digitale-smart e green di un “motore” usurato) caro alla retorica del “non soffocare il vento del Nord” per “far correre Milano”. Ma è anche pure insufficiente porsi nell’ottica della Ripresa laddove – all’ Italia – serve una Rinascita.
A tal proposito non conforta sapere che le risorse ( quale quota?) saranno “assegnate” tramite bandi competitivi (di Comuni e Regioni) in altri termini saranno messe all’asta: un modo per soffocare l’ ottimismo non perchè i bandi non possano rappresentare un necessario “contentino” per impazienti Regioni e territori ma perchè al di là di queti annunci non si vedono le tappe e l’ordine delle priorità di una strategia del governo – come osessivamente chiede questo giornale – per “disincagliare il Titanic Italia”. La priorità è infatti “salvare” l’Italia -Nord e Sud, Di questo tratta il nostro PNRR essenziale all’ Unione del post-pandemia per “salvare” gli obiettivi di Europa 30 e Europa 50. In italiano vorrebbe dire recuperare piena agibilità nel Mediterraneo che la Geografia ha destinato al Mezzogiorno e all’ Italia, un destino che dovremmo smettere di subire e cominciare a riempire di contenuti per mettere a frutto l’ enorme rendita fin qui dissipata: tanto più oggi che la forza delle cose porta la UE a scoprire nel Mezzogiorno un bene posizionale strategico.
In salsa smart e green tutto ciò significa logistica, autostrade del mare, attrezzare in Cluster integrato le otto Zone Economiche Speciali per articolare un inedito Southern Range che attivi la reazione a catena dell’ indispensabile Secondo motore. Il PNRR, impegnativo strumento finanziario, inaugura la seconda stagione italiana di intervento straordinario rivolto, ora, all’ Italia non più solo al Mezzogiorno. Straordinario senza disporre di strumenti straordinri (la memoria corre alla Cassa della stagione 1951-1974), carente di precise attribuzioni e responsabilità: E’ stato articolato in missioni-milestone-progetti localizzabili e non, declinati in migliaia di schede non prodotte ma pervenute a un Centro che seleziona, coordina e decide -come visto- affidando la prospettiva operativa a bandi competitivi dai quali emergerà a valle l’ identità della strategia che volutamente (?) manca a monte.
La dimensione pervasiva del novello intervento straordinario impone un problema di coordinamento e ripartizione di compiti con la gestione della politica ordinaria del Paese. Da qui al 2026 il rapporto tra la straordinarietà del PNRR e la gestione ordinaria della politica economica sarà un aspetto cruciale che non sembra ancora percepito nella sua rilevanza nonostante esso investa aspetti immediati e di lungo periodo che richiedono una articolazione organica dei due piani sia al Governo che -doverosamente- al Parlamento. Affinchè il breve ciclo dell’ intervento straordinario sia pienamente funzionale è indispensabile realizzare un contesto di affidabile “normalità” per l’ attività ordinaria di governo.
Il nocciolo della questione “straordinarietà”- “ordinarietà” all’insegna della “normalita”, comporta l’ impegno prioritario a definire il percorso di rientro che la politica ordinaria dovrebbe intraprendere al fine di ottemperare a principi-cardine fissati da fonti certe, definite ma, in realtà, da anni ampiamente disattesi. La “normalità” infatti sfuma, fino a scomparire se in casi significativi – per prassi ormai consolidata – essi sono sistematicamente elusi. Si tratta di ricondurre con il supporto a termine dell’ intervento straordinario l’ operare “effettivo” della politica ordinaria ad una graduale conformità ai criteri “nozionali” che la stessa politica ha definito. Non si tratta di innovare e tantomeno di riformare bensì di adempiere a, o -se del caso- abolire norme in essere per la gestione delle risorse pubbliche sia in conto capitale che in conto corrente.
E’ nota in proposito l’ anomala persistente discrasia tra un regime di “normalità effettiva” non conforme al “regime nozionale” a causa della quale criteri fondamentali rimangono riferimenti del tutto virtuali pur se solennemente scolpiti in norme di legge e in Costituzione. Né sembra credibile ed appropriato che il rispetto “odinario” possa essere garantito da “emendamenti”, “quote” ecc. -peraltro mai operative dopo 1991 nonostante previste dalla legge (ultima nel 2017). Il tema è quello di dare un esito all’ “operazione verità” ben nota a questi lettori. Non cala certo il sipario sul tema di un regime “ordinario” da garantire nell’ accesso e fruizione dei diritti civili e sociali di cittadinanza: salute, educazione, mobilità previsti dall’ art 117 comma 2 lettera m, dall’ art 119 del titolo V e dalla legge 42/2009 attuativa del 119. Un aspetto ben colto dall’ Unione Europea nelle raccomandazioni che accompagnano l’assegnazione delle ingenti risorse del neonato debito pubblico comunitario.
Tutto ciò pone l’ esigenza di avviare un complesso processo perequativo. Un compito oggi nella disponibilità del Governo, massimamente di questo che gestisce l’ ordinario e lo strumento straordinario del PNRR. Il superamento del criterio della spesa storica – senza ricorrere all’ alibi dei mitici e per molti versi inutili perchè non definibili LEP – è la premessa per garantire livelli il più possibile omogenei sul territorio per quel che concerne scuola, sanità e mobilità. In poche parole si tratta di fare convergere gli standard territoriali al pro-capite nazionale. Sarebbe benvenuto un preciso annuncio a proposito e un ancor più cogente apparato applicativo dell’ impegnativo annuncio. A giudicare dai timidissimi esempi in proposito – non a caso via bandi – sia gli annunci che i procedimenti attuativi non sembrano battere strade diverse dal passato. Sono futili gli appelli che, continuando a invocare la pre-definizione dei LEP distolgono dal prendere atto del solo riequilibrio possibile certificato in venti anni di rilevazioni dei Conti Pubblici Territoriali su ogni singolo servizio. Nella situaizione data, l’evidenza dell’ impatto territoriale di una “perequazione secca” evidentemente improponibile, fornisce la plastica misura del rischio montante di disgregazione del Sistema Paese paventato dalla UE. A neutralizzare questa esplosiva contraddizione soccorre proprio l’ intervento straordinario a termine delle risorse del NGEU con interventi sia in conto capitale per adeguare le dotazioni infrastrutturli sia per rafforzare e qualificare il capitale umano.
Una elasticità che sul versante della gestione ordinaria favorisce l’ effetivo superamento della spesa storica e di avviare una perequazione che consenta di ridurre gradualmente i divari senza intaccare i livelli acquisiti dei territori. Tale coordinamento ordinario-straordinario non necessariamente risolverà entro il 2026 il problema. Il nodo della perequazione, va perciò adeguatamente ed immediatamente messo in luce come il cardine che integra intervento straordinario e gestione ordinaria: un ingrediente essenziale affinchè il “secondo motore”, da avviare al Sud sia, poi, lui stesso a contribuire con il “tagliando dello sviluppo” a dare continuità e forza al processo.
Il crowdining in della convergenza dipenderà perciò dall’ apporto del finora inesistente “secondo motore” del Paese, con il Sud direttamente in campo a raccogliere la sfida della rinascita e della chiusura del gap di cittadinanza.
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