Cerere e gli alberi da Aristotele a Green

C’eravamo persi al liceo questa perla, questa definizione degli alberi data da Aristotele che grazie a “Parigi”, perla altrettanto – un libro di Julien Green edito da Adelphi – possiamo annotare nel taccuino. Dice dunque lo stagirita: «Gli alberi sono persone che sognano». All’ora del gallo e del lattaio, quando ogni città è illusa dalla natura – qui un tempo era tutta campagna – ci sono i popoli liberi del cielo, e cioè gli uccelli in volo sui palazzi, in cerca di cespugli, rami e cespi selvatici su cui fare sosta e nido. Cercano gli alberi con cui smozzicare gli ultimi sonnellini e i sogni. Abitano con un gemito – e uno stridio – il senso del possesso. Tutto sembra essere loro proprietà, nel tutto di natura. Dopodiché inizia il giorno tutto di ansimi espettorati dal traffico e dal transito dell’umanità e l’illusione – come un miraggio – svapora, se ne va a svanire com’è proprio di ogni nostalgia segreta chiamata sogno. Ed è lei, sempre lei, solo lei: «Mostra con un gesto assente, come potrebbe fare una Cerere in esilio – così si legge nel libro di Green – mentre esibisce, senza speranza di essere compresa, il simbolo di una religione dimenticata». Ed è lei, sempre lei, solo lei: Cerere che si palesa subito dopo il gallo e il lattaio. All’ora della fiorista. Fabbricando ciuri (che sono i sogni degli alberi).