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Mario Draghi durante il suo viaggio in America mentre riceve l'Atlantic Council Distinguished Leadership Award

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ROMA – In apertura del consiglio dei ministri di ieri sera, Mario Draghi relaziona sul suo viaggio a Washington e ribadisce la necessità di far sedere al tavolo dei negoziati tutti gli alleati, ma, in particolare, la Russia e gli Stati Uniti. Secondo le fonti, il primo ministro italiano chiede che sia Biden a fare il primo passo chiamando Putin. “Non si può dimenticare quello che è successo – ripete Draghi – ma bisogna cominciare a guardare al futuro”. E nel futuro c’è una pace che deve accontentare prima di tutto l’Ucraina, che è la vittima dell’aggressione.

Il premier vuole subito tesaurizzare l’incontro di Washington dove ha fatto un gran figurone. Draghi sa pesare le parole, è animato da una cultura pragmatica e realista, la sua consuetudine con le maggiori istituzioni internazionali è un’ottima bussola, gode da tempo della stima degli Usa. Tutto ciò ha permesso al premier italiano di realizzare la mirabolante impresa di tenere tutto insieme. Ha portato in dote la determinazione del suo governo nel sostegno all’Ucraina e la lealtà all’alleanza atlantica, a dispetto dello stillicidio di agguati preparati dalla coppia Salvini-Conte che da tempo si è messa di traverso sulla questione delle armi. Ha intascato la sorpresa e gli apprezzamenti degli americani per l’impegno italiano nella ricerca dell’indipendenza energetica dalla Russia. Più di ogni altra cosa, è riuscito a comunicare insieme la fermezza contro Putin e la domanda di pace che arriva dall’Europa (e, soprattutto, dall’Italia).

Joe Biden ha ricevuto un messaggio molto chiaro: l’Italia c’è, è un alleato leale, impegnato a sostenere gli sforzi necessari per impedire la devastazione dell’Ucraina e la sua annessione alla Russia. Ma, allo stesso tempo, Draghi ha consegnato al presidente americano un appello a moderare la durezza dello scontro con Putin alla ricerca di una exit strategy possibile.

Tutto molto bello. Ma quali sono i risultati effettivi di questo viaggio, al di là della conferma della stima nei confronti del presidente del consiglio? La sensazione è che l’evento sia stato del tutto interlocutorio rispetto alle effettive prospettive di pace e risoluzione del conflitto. Prima di tutto per gli americani. Le tracce della notizia del viaggio sui media d’oltreoceano sono molto vaghe. Non sembra che l’evento abbia avuto la portata storica che, con un certo provincialismo, i nostri media vorrebbero attribuirgli.

Nel raccontare l’incontro, il Financial Times, tempio del liberalismo britannico, si limita a riportare lo scambio tra i due leader sulla questione energetica. Ovviamente, il problema non è Draghi, che speriamo si conservi a lungo. Il fatto è che, sul tema del sostegno all’Ucraina contro la Russia, l’America gode in questo momento di una totale concordia tra democratici e repubblicani. Tutti convergono sul fatto che la Russia va stoppata. Così si spiegano i 40 miliardi di stanziamenti militari per il governo di Kiev. Gli obiettivi di Putin sono tutti falliti. Ma sono falliti proprio grazie all’impegno straordinario per aiutare la resistenza armata. Quando arriverà il momento del negoziato, questo sarà possibile solo grazie al formidabile coinvolgimento del mondo angloamericano.

Questo lo sa benissimo Zelensky che, infatti, in questi mesi di guerra, ha vincolato sempre più il suo paese agli Usa e, subito dopo, al Regno Unito. Gli anglosassoni saranno un po’ sgarbati nei modi, ma sanno cosa fare. In più, hanno i mezzi economici e tecnologici e la capacità decisionale per farlo. Questo non vuol dire che Joe Biden sia un “falco”, espressione cioè di quei circoli istituzionali, militari ed economici di Washington che vorrebbero proseguire la guerra fino al regime change a Mosca, costi quel che costi. Eppure, nella sua visione di un’alleanza delle democrazie che si oppongono all’aggressiva sfida dei regimi autoritari, l’Ucraina è diventata una prova decisiva: l’occasione per costruire quell’“arsenale della democrazia” che deve garantire libertà, pace, diritti e commerci anche nel futuro. Di fronte a questa sfida, l’Europa sembra si sia già stancata.

Dopo le prime settimane in cui l’assalto dell’esercito russo ha spaventato seriamente le cancellerie europee, l’attuale situazione di stallo – in cui i due eserciti si fronteggiano in una guerra di attrito che tanto ricorda la prima guerra mondiale – ha risvegliato l’anima più blanda dei paesi europei più importanti. Macron, Scholz e Draghi devono fare i conti ogni giorno con una opinione pubblica che non ha nessuna voglia di affrontare i sacrifici economici e sociali di un prolungamento del conflitto. La memoria non così lontana dei disastri della prima metà del 900 si salda alla consolidata abitudine alla pace degli ultimi 70 anni: da qui le remore a opporsi in modo troppo risoluto a un dittatore che pare ormai impantanato nel suo delirio velleitario.

A questo si aggiunge l’impatto obiettivamente duro dell’ultimo pacchetto di sanzioni economiche. L’embargo del petrolio e del gas, che costituisce l’arma economica definitiva che metterebbe la parola fine alla volontà di conquista del Cremlino, ha delle ripercussioni pesanti sugli stessi paesi europei. E in Europa, si sa, basta che un paese, anche il più piccolo, si metta di traverso per bloccare tutto. Oggi è il caso dell’Ungheria. Ma bisogna ammettere che ciascun paese, a seconda degli interessi in gioco, ci mette del suo per rallentare o impedire le decisioni comuni. Questo fatto, però, rende l’Unione europea un soggetto in qualche modo inaffidabile per gli alleati e alla lunga poco temibile per gli avversari. A turno, ciascuno stato membro può opporre il suo potere di veto non appena il gioco comincia a farsi più duro perché tocca questioni di interesse vitale: come sono, per esempio, la politica energetica e la politica estera. Così proseguendo, si capisce bene che il club di partner economici non riesce mai a trasformarsi in un soggetto politico capace di dire la sua in modo univoco nemmeno in casa propria, figuriamoci sullo scacchiere mondiale. Addirittura quel mattacchione di Boris Johnson oggi sembra in grado di svolgere un ruolo politico globale più efficace e distintivo.

Nel momento in cui perfino la Finlandia e la Svezia decidono di entrare nella Nato per il timore di una aggressione da parte della Russia – avendo già stipulato accordi militari di reciproco aiuto con il Regno Unito – e i paesi baltici e orientali digrignano i denti chiedendo più considerazione verso la loro domanda di sicurezza contro l’orso russo, si capisce che l’Europa è arrivata a un punto di svolta. In caso contrario, il rischio è che, a dispetto di tutte le chiacchiere antiamericane e della retorica pacifista, Bruxelles resti al palo, lasciando per l’ennesima volta a Washington (con Londra come junior partner) il ruolo di guardia armata della pax europea.

L’Unione europea sarà presa sul serio soltanto quando sarà capace di difendersi da sola, senza tormenti e tentennamenti: è questa la cruda verità. Questo tema dovrebbe diventare centrale anche nel dibattito pubblico di ciascuno stato membro. Specie in Italia, dove il partito della “No” alle armi e del “Sì” alla resa dell’Ucraina è molto forte e può diventare il nucleo ideologico del populismo lassista prossimo venturo. Ma dal 2023 non ci sarà più la credibilità internazionale di Draghi a coprire le nostre ambiguità e le nostre incoerenze.


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