Macerie a Kiev
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L’AFFERMAZIONE di Clausewitz che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi viene citata quasi sempre in modo errato. Il generale prussiano ha affermato che la «guerra è la continuazione della politica con l’uso anche di altri mezzi», cioè della forza. La politica non scompare quando iniziano a tuonare i cannoni. Continua, anche se è fortemente condizionata dall’andamento delle operazioni. Gli obiettivi politici mutano a seconda dell’esito dei combattimenti. Viene adattata non solo nella strategia seguita, ma anche negli obiettivi perseguiti.
LE DEBOLEZZE OCCIDENTALI
Il conflitto in Ucraina ne è un chiaro esempio. La possibilità di tregue temporanee o di trattative di pace dipende dalla situazione sul campo di battaglia e dalle previsioni della loro evoluzione. Per le trattative, come per la pace, occorre che entrambe le parti in conflitto le vogliano. Per continuare la guerra ne basta una sola. Si insiste spesso che la possibilità di trattative fra Ucraina e Russia sia subordinata alla disponibilità di Kiev di cedere territori in cambio della fine dell’aggressione russa. Ma è solo Kiev a poterlo decidere, anche se è certamente sensibile a pressioni delle potenze esterne che sostengono la sua resistenza. Stranamente, ma non troppo, nessuno ha precisato che cosa dovrebbe cedere la Russia, i cui obiettivi, almeno quelli dichiarati, sono rimasti quelli iniziali: annessione dell’Ucraina o installazione a Kiev di un governo filo-russo che proceda alla sua “denazificazione”, cioè alla sua rinuncia a far parte dell’Occidente.
Sono state le “rivoluzioni colorate” – prima quella “arancione”, poi quella “Maidan” – a convincere Putin che l’Ucraina rappresentava una minaccia per il regime russo e, in senso più ampio, l’archetipo di un modello sociale e politico botton-up di tipo occidentale, opposto, come ha recentemente suggerito Andrey Kortunov, direttore dell’Istituto affari internazionali di Mosca, al modello top-down, proprio della Russia di Putin (che è un revanscista-restauratore, come Gorbaciov era un occidentalizzante).
Sono state le ripetute debolezze delle reazioni occidentali (in Georgia, Siria, Libia, Crimea e Donbass) e il caos del ritiro dall’Afghanistan, unite alla minaccia cinese, a persuadere Putin che era tempo di accelerare il declino dell’Occidente, che Mosca e Pechino ritengono inevitabile. Putin era convinto che esso non avrebbe reagito, neutralizzato dalla minaccia dell’enorme arsenale nucleare russo, disinvoltamente agitato prima dell’aggressione all’Ucraina.
LA SVOLTA USA
Inizialmente, Putin aveva pensato di poter impossessarsi dell’Ucraina in poche settimane, che gli ucraini non avrebbero resistito e che avrebbe potuto installare a Kiev un “governo fantoccio” filorusso. Anche gli occidentali la pensavano nello stesso modo. Gli Usa avevano proposto a Zelensky di portarlo in salvo da Kiev. Con grande meraviglia di tutti, la forte resistenza ucraina e l’inefficienza militare russa hanno fatto fallire tale piano.
Gli Usa si accorsero che l’Ucraina, da causa persa, si era trasformata in opportunità strategica. Intensificarono, con l’efficiente rapidità logistica che li contraddistingue, gli aiuti militari all’Ucraina (fino ad allora molto limitati: 50 miliardi di dollari nel 2017 e 150 negli anni successivi, più l’addestramento di ufficiali, specialisti e forze speciali). Dopo il disastro subito, soprattutto ad opera dei drones turchi e delle armi controcarro leggere britanniche (all’inizio dell’aggressione gli ucraini disponevano solo di un centinaio di Javelin americani), anche Putin cambiò la strategia. Concentrò le sue forze, carenti soprattutto in fanteria, nel Donbass, cercando di sfondare le difese e di accerchiare le forze ucraine. Anche tale strategia è fallita. Oggi ha adottato una strategia di logoramento, colpendo con artiglieria, missili e aerei la popolazione e le forze ucraine.
LE CRITICITÀ MILITARI
Il centro di gravità dell’attacco, trasformatosi da manovrato in frontale, è la città di Severodonetsk, porto-canale di 100.000 abitanti nella provincia di Lugansk. Gli ucraini cercano di trasformarla in una nuova Mariupol, trincerandosi nelle sue rovine. Grazie alla loro maggiore potenza di fuoco i russi avanzano, ma lentamente. L’accanita resistenza ucraina infligge alle loro fanterie gravi perdite, difficilmente rimpiazzabili, anche per l’impossibilità politica di Putin di dichiarare la mobilitazione generale e d’impiegare in Ucraina coscritti e riservisti.
L’intelligence britannica valuta che entro un paio di mesi la Russia non disporrà più di fanti addestrati per rimpiazzare le perdite. Allora si accrescerà la disponibilità del Cremlino a trattare per uscire fuori dal pasticcio in cui si è ficcato. Questo spiega la resistenza di Kiev a trattare senza un preventivo ritiro delle forze russe. Il tempo lavora a suo vantaggio. D’altro canto, ogni concessione o compromesso da parte loro, prima dell’inizio dei negoziati, sarebbe un appeasement.
Gli Usa non eserciteranno alcuna pressione per far cambiare tale posizione di Kiev. Sono consapevoli che la posta in gioco è più ampia dell’Ucraina e anche della Russia. Riguarda il confronto fra il modello americano e quello cinese di nuovo ordine mondiale. La prevalenza dell’uno o dell’altro sarà influenzato dagli esiti del conflitto in Ucraina. Solo un’intesa fra Washington e Pechino potrebbe essere risolutiva sulle scelte di Mosca e di Kiev.
LE DIFFICOLTÀ DIPLOMATICHE
La guerra è quindi destinata a continuare. Sembra scongiurato il pericolo di un ricorso russo alle armi nucleari. Mosca perderebbe il supporto della Cina e dell’India. Rischierebbe anche una reazione americana, alquanto imprevedibile. Sicuramente, essa ha costituito l’argomento centrale trattato nelle telefonate fra i ministri della Difesa e fra i capi di stato maggiore generali americani e russi. Indubbiamente, difficile è «offrire al nemico i ponti d’oro» di cui parla Sun Tzu. Almeno lo è prima dell’inizio di negoziati. Nella situazione attuale, in cui entrambi i contendenti ritengono che continuare a combattere sia più conveniente che una trattativa di pace, i negoziati possono proporsi obiettivi solo limitati, quali lo scambio di prigionieri o lo sblocco dei trasporti marittimi per il grano ucraino.
È sempre più difficile terminare una guerra che iniziarla. I leader politici, soprattutto quelli che hanno per primi fatto ricorso alle armi, rischiano il loro potere, quando non la loro vita. Il prestigio internazionale e il consenso interno sono sempre parte degli accordi. La questione è complicata in Ucraina dal fatto che molti temono che un’eccessiva umiliazione di Putin lo renda disperato al punto di ricorrere al suo poderoso arsenale nucleare. Anche per Zelensky è quasi impossibile cedere territori in cambio della pace. Gran parte del popolo ucraino è persuaso di poter vincere. Molti vorrebbero vendicarsi per l’aggressione e la brutalità russe.
Zelensky non può essere indotto al suicidio politico per far piacere ai pacifisti o ai putiniani nostrani. Di conseguenza, il conflitto durerà verosimilmente ancora mesi e le varie proposte di pace sul tappeto dovranno adeguarsi all’andamento delle operazioni militari in Ucraina.
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