Vladimir Putin
6 minuti per la letturaFIUMI d’inchiostro sono stati spesi per contestare che Putin e gli obbedienti media russi continuino a chiamare “operazione militare speciale”, l’aggressione all’Ucraina. Per il presidente russo l’Ucraina fa parte integrante della Grande Russia. Bensì l’impiego del termine ha una precisa ragione. Può essere compresa facendo riferimento alla corposa documentazione relativa alla “Dottrina di sicurezza russa”.
I “Piccoli Russi”, cioè gli ucraini come sono stati chiamati dal XIX secolo per distinguerli dai “Grandi Russi” e dai “Russi Bianchi”, costituiscono con essi un’unica nazione, con la stessa storia e gli stessi valori. Non hanno quindi diritto a un proprio Stato. L’azione militare in Ucraina è, quindi, secondo la concezione di Putin, una guerra interna, del tipo previsto dalla “Dottrina militare russa”. Non è una guerra internazionale, che la stessa dottrina distingue in locale, regionale, su ampia scala e globale (in quest’ultimo caso, comporta anche l’uso effettivo delle armi nucleari strategiche che, negli altri tipi di conflitto hanno un’utilizzazione solo per la dissuasione). In essi è però possibile l’impiego di armi nucleari tattiche.
Rispetto alla sua edizione del 2015, quella del 2021 prevede un abbassamento della “soglia nucleare”. Il presidente può ordinare di impiegare qualche testata tattica non solo quando è in pericolo la sopravvivenza dello Stato, ma anche solo per la sua sicurezza. L’uso delle armi tattiche deve essere estremamente controllabile, in modo da poter tornare ad operazioni convenzionali una volta ristabilito l’equilibrio delle forze. Gli USA denominano tale strategia “escalate to de-escalate”, termine peraltro non usato dalla dottrina russa, in cui sembra prevalere il concetto “escalate to win”.
La “dottrina militare russa” è stata approvata da Putin nell’aprile 2021. Si tratta di un documento molto complesso, con numerosi allegati, di cui uno riguarda la “strategia marittima”, un altro quella “artica” e un terzo quella della “dissuasione nucleare”. Conosciuta in Occidente come “dottrina Gerasimov”, dal nome dell’attuale Capo di Stato Maggiore Generale russo, Valery Gerasimov, che ne aveva proposto le linee-guida in un lungo articolo del 2013. In realtà, si dovrebbe chiamare “Dottrina Primakov”, delineata nel 1997 dall’allora ministro degli esteri russo. Di fronte alla superiorità della NATO, egli proponeva che la Russia ricorresse a prevedere una stretta integrazione delle componenti “non cinetiche” della sua potenza militare (disinformazione, spionaggio, pressioni economiche, attacchi cibernetici, “quinte colonne”, sabotaggi, compagnie militari private…) con quelle militari, da considerare strumenti di ultimo ricorso.
Nella NATO, tale tipo di conflitto (peraltro vecchio come il mondo) è stato impropriamente chiamato “guerra ibrida”, termine mai usato dalla Russia. Oltre che la guerra esterna, la “dottrina militare” considera diffusamente la guerra interna, esaminandone possibili cause: tentativi di secessione; violenze contro la popolazione russa; rivolte e “rivoluzioni colorate”, ecc. L’utilizzo interno della forza militare è definito “operazione interforze (joint) speciale”. E’ “joint” perché in esse, unitamente alle forze armate, è di massima previsto l’intervento della “Guardia Nazionale”, costituita dalle unità degli altri ministeri (soprattutto dell’Interno e dell’FSB (servizio d’intelligence interna), ma anche dei Trasporti, della Sanità, della Marina Mercantile, ecc.).
Poiché in Ucraina la Guardia Nazionale non è impiegata (eccetto l’FSB), al termine “interforze” è stato sostituito quello di “militare”. Tuttavia, l’azione per Putin deve figurare come interna, volta alla difesa della popolazione russa, posta in pericolo dagli elementi “nazisti” che dominerebbero l’Ucraina. Il mancato uso del termine guerra ha una forte valenza propagandistica interna, derivante dal fatto che l’opinione pubblica russa è convinta della legittimità della cosiddetta “Dottrina Medvedev”, secondo la quale Mosca avrebbe il diritto/dovere di provvedere alla sicurezza dei 23 milioni di russi, rimasti al di fuori della Federazione a seguito della “catastrofe geopolitica”, rappresentata dal collasso dell’URSS.
La Russia non accetta di essere considerata uno Stato come gli altri. Deve rimanere un impero. Solo così può assolvere la sua, quasi mistica, missione storica, legata alla sua storia e ai suoi valori spirituali. Non per caso Putin ha l’incondizionato appoggio del Patriarca Kirill, suo vecchio collega nel KGB, che ha benedetto come “santa”, l’aggressione all’Ucraina.
Analoghe discussioni semantiche, effettuate al di fuori del loro contesto reale, hanno riguardato l’uso del termine “genocidio” da parte del presidente Joe Biden. In questo caso, le motivazioni erano più “terrene”. La legge americana autorizza il presidente a fornire aiuti militari senza passare dall’autorizzazione del Congresso ad uno Stato che subisce un genocidio. L’urgenza di fornire all’Ucraina i mezzi per difendersi aveva tempi incompatibili con una deliberazione del Congresso. Biden all’inizio dell’aggressione non pensava che l’Ucraina si sarebbe difesa. Gli aiuti militari forniti dagli USA e dall’UK prima dell’inizio dell’attacco russo non erano ritenuti sufficienti a prolungarne la resistenza oltre 48-96 ore. Per questo, Biden aveva offerto a Zelensky di portarlo via da Kiev e metterlo al sicuro a Leopoli o all’estero. Con grande sorpresa di tutti, il presidente ucraino non volle fuggire e le sue truppe si difesero con grande vigore. Allora la politica di Biden cambiò. Decise di sostenere militarmente l’Ucraina e lo fece con rapidità e vigore. Una volta iniziato, non poteva più tirarsi indietro e ripetere la figuraccia dell’Afghanistan. Per questo ha rilanciato, usando espressioni poco diplomatiche nei riguardi di Putin, anche per mostrare agli alleati che si era tagliato i ponti alle spalle e che non avrebbe accettato compromessi, affermando che gli USA continueranno ad armare l’Ucraina fino alla sua vittoria. Questo è un chiaro avvertimento a Putin. Deve ridurre le sue pretese al punto di essere accettabili per l’Ucraina. In caso contrario verrà svenata. Biden non ha evidentemente chiarito che cosa intenda vittoria per l’Ucraina. Spetta a Kiev definirla. Gli USA hanno però gli strumenti di pressione necessari per convincere Zelensky a non esagerare e a non pretendere una completa umiliazione di Mosca. Certamente, si tratterà di un compromesso, definito da una trattativa resa possibile dal logoramento, nella “grande battaglia del Donbas” o, in caso di sconfitta ucraina, nell’inevitabile guerra di guerriglia antirussa, delle forze di Mosca, già malridotte dalle perdite subita a Kiev.
Ritengo del tutto irrealistica l’affermazione che gli USA abbiano interesse a prolungare la guerra in Ucraina per umiliare o distruggere la Russia. Indubbiamente vogliono renderla inoffensiva anche a medio-lungo termine, per cedere agli europei l’onere della difesa dell’Europa e concentrarsi sull’Indo-Pacifico. Più la guerra si prolunga, più la Russia diverrà una colonia della Cina. Sarebbe contrario agli interessi dell’America, dove molti sperano di poter riprendere la politica di Trump e di poter costituire un nuovo “triangolo di Kissinger” alleandosi con Mosca contro Pechino. L’unica grande potenza che ha tutto l’interesse a una lunga guerra in Ucraina è la Cina: ci guadagna con la Russia e diminuisce il rischio di un’alleanza anticinese del Nord, come potenzialmente era il G-8, dopo l’ammissione della Russia al consesso occidentale.
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