Papa Francesco
4 minuti per la letturaINUTILE girarci intorno: il viaggio di Papa Francesco a Cipro, in Grecia e tra i migranti (visita a Lesbo), è una missione pastorale che si svolge tutta sul fronte anti-Erdogan nel Mediterraneo orientale.
Certo come ha detto il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni – presentando il viaggio apostolico che il Papa compie da oggi a lunedì a Cipro e in Grecia – Francesco fa altri calcoli: questo “è un viaggio nel segno dei migranti e Papa Bergoglio tornerà per la seconda volta nell’isola di Lesbo, come fece nel 2016 quando tornò a Roma con dodici profughi”. Del resto la crisi dei migranti è lì a ricordarci ogni giorno una tragedia umanitaria ma anche la manipolazione dei rifugiati in chiave politica. La stessa Turchia ricatta l’Europa sulla rotta balcanica ed ellenica dei migranti, così come lo fa la Bielorussia nei confronti della Polonia e i trafficanti libici rispetto all’Italia. I turchi stessi di recente hanno lasciato passare dei migranti dal confine tra Cipro Nord e Cipro greca.
E non si può certo ignorare quello che afferma lo stesso nunzio apostolico a Cipro, monsignor Ylana: “Dire che il Papa visita un’isola è improprio. Direi meglio che visita un popolo, un Paese che è anche un Paese che si trova in mezzo al mare. Una nazione che adesso, come tutte le altre nazioni, ha problemi di divisione come anche molti altri Paesi hanno”.
Cipro è una questione irrisolta e bruciante: l’isola è divisa tra la Repubblica di Cipro greco-cipriota, riconosciuta internazionalmente e membro dell’Unione europea, e l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord (RTCN), che occupa il terzo settentrionale dell’isola ed è riconosciuta solamente dalla Turchia. Nicosia è ancora una delle poche città al mondo divise in due, anche se il Muro che la separava materialmente – dopo il tentativo di annessione della giunta militare greca e l’invasione delle forze armate turche del 1974 – non c’è più da un pezzo. La breccia che si era aperta a Nicosia nell’ultimo Muro d’Europa si richiuse amaramente il 25 aprile del 2004 quando il referendum dell’Onu sulla riunificazione di Cipro fu approvato dai turchi e respinto dai greci: veniva così sancito il paradosso territoriale di un’isola che una settimana dopo, il primo maggio, da una parte diventava Europa mentre l’altra ne restava fuori. I greci, che si erano già garantiti l’accesso all’Unione, non avevano nessun interesse a mettersi insieme ai turchi: Bruxelles commise un errore clamoroso che fece affondare il piano del segretario dell’Onu Kofi Annan.
Oggi nella parte turca dell’isola ci sono i droni della Turchia e Ankara sta costruendo basi sul territorio della Repubblica turca di Cipro Nord, destinate a ospitare aerei da guerra e le nuove navi della Marina. Nella parte greca dell’isola ci sono i droni e i sistemi di sorveglianza elettronica israeliana, le basi greche, quelle inglesi e le nuove alleanze in funzione anti-Erdogan che comprendono Grecia, Francia, Egitto, Emirati, anche se proprio in questi giorni Ankara e Abu Dhabi hanno annunciato accordi economici importanti che in qualche modo allentano la tensione tra due Paesi.
Al centro del contenzioso nel Mediterraneo orientale ci sono le riserve di gas offshore, la divisione tra diverse zone economiche esclusive di sfruttamento e i confini marittimi tra Grecia e Turchia. Nei piani rientra anche il gasdotto East-Med che in futuro dovrebbe trasportare le risorse di gas di Egitto, Palestina, Israele e Libano verso i mercati europei, insieme a quelle greche e cipriote. Questo uno dei motivi che hanno portato la Turchia in Libia dove, in cambio dell’aiuto militare del 2019 contro il generale Khalifa Haftar, Ankara ha ottenuto di tracciare un zona economica che parte dalla Tripolitania fino alle coste turche. Mossa cui hanno replicato alla stessa maniera Grecia ed Egitto. Ma perché si parla di un fronte-anti-Erdogan nel Mediterraneo?
Alla fine di settembre è stato firmato il patto militare tra Parigi e Atene, voluto fortemente sia dal premier greco Mitsotakis sia dal presidente Macron per esigenze diverse ma convergenti. Atene voleva mostrare alla Turchia di avere alle spalle un alleato forte, pronto a intervenire in sua difesa in caso di grave “interferenze” di Ankara nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Parigi aveva la necessità di piazzare un colpo di mercato da tre miliardi di euro per coprire almeno in parte la perdita del contratto con l’Australia per i sottomarini, naufragato per colpa di Aukus. E lo ha fatto vendendo tre fregate alla Marina ellenica, battendo così anche la concorrenza di Fincantieri.
Ma quello che conta è il segnale politico di una sinergia, quella con la Grecia, che a questo punto si sta cementando in qualcosa di molto simile a un’alleanza strategica che corre in parallelo rispetto alle organizzazioni di cui fanno parte entrambi i Paesi, e cioè Nato e Unione europea. Oltre al rafforzamento della flotta ellenica, è stata inserita una clausola di mutuo soccorso per la tutela della Grecia.
Nell’accordo è prevista una “garanzia di intervento in caso di attacchi da parte di Paesi terzi” anche se parte di alleanze in cui sono coinvolte Atene e Parigi come la Nato. Un modo per non dire “Turchia”, che a questo punto diventa il vero avversario di un’alleanza franco-ellenica che vuole incidere sul Mediterraneo orientale.
Il paradosso è che Francia, Grecia e Turchia fanno tutte parte della Nato. E tanto basta a far capire quali contraddizioni oggi agitano l’Europa e il Mediterraneo.
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