Mario Draghi
6 minuti per la letturaLa crescita nel 2021 dell’8,3% eguaglia il primato italiano del 1961. Cumulata con quella del 2022 sale al 12,3% molto meglio delle grandi economie europee anche come superamento del Pil 2019. Passiamo da ultimi a primi. Il miracolo nasce dalla fiducia in Draghi trasferitasi su investimenti e consumi. Come ricompensa lo abbiamo mandato a casa. È plateale il contrasto tra il motore ai massimi alimentato dalla benzina della fiducia di allora e quello di oggi ai minimi sotto gli occhi dei mercati. Il rendimento sui nostri titoli sale e siamo umiliati dal confronto con Atene, non con Parigi.
CHIEDETE scusa a Mario Draghi. Chi lo ha buttato giù da Palazzo Chigi, nascondendosi, e ancora può farlo, dovrebbe pubblicamente pentirsi per avere privato il Paese della guida più stimata in Europa, se non altro per qualche forma di residuo rispetto nei confronti degli italiani che un politico deve sempre avere.
La crescita del prodotto interno lordo (Pil) nel 2021 è stata dell’8,3%, secondo le ultime riclassificazioni di Istat che hanno riguardato tutti i Paesi europei, e eguaglia il primato assoluto della storia repubblicana italiana detenuto fino a oggi dal 1961 che rappresenta il punto massimo di crescita del primo grande miracolo economico italiano (1951/1963). Con questo risultato che conferma anche la crescita del 3,7% del 2022, il governo Draghi e l’effetto di trascinamento nell’ultimo trimestre di questo secondo anno mettono a segno nel biennio una crescita cumulata del 12,3% che aumenta ulteriormente la distanza rispetto alle cinque grandi economie europee e porta al 2,3% l’incremento rispetto al Pil annuale del 2019. Quest’ultimo dato esprime nettamente la migliore performance europea con la Spagna, oggi tanto osannata, che resta sotto dello 0,1% rispetto al Pil del 2019. Questi sono i fatti. Se dividessimo per due la crescita cumulata del biennio ci troveremmo con una media di espansione annua dell’Italia pari al 6,15% che è superiore al ritmo medio di crescita annua del primo miracolo economico italiano che è stato del 5,9%. Quello che, ancora di più, ci deve riguardare sui dati di questa revisione è che non solo nessuno dei cinque grandi Paesi ha avuto anche nella revisione queste performance, ma che la qualità del contributo alla ulteriore crescita è venuta in misura quasi totalitaria da industria, commercio trasporti alloggi e ristorazioni, investimenti in macchinari dovuti alle riforme di industria 4.0 rafforzate.
In tutti questi dati si percepisce la fiducia trasmessa al sistema economico proprio dalla credibilità internazionale di chi guidava il governo e dalla percezione positiva interna che ne avevano gli stessi consumatori. L’economia vive di aspettative e l’imprenditore si fida quando ha un “generale” forte al comando o almeno come tale lo percepisce. Per questo investe e dà il massimo sui mercati di tutto il mondo. I cittadini-consumatori vivono invece di emozioni per cui consumano di più se sentono che la barca va, ma quando vanno a votare se sentono qualcuno che ti promette di abbassare le tasse lo preferiscono anche allo stesso Draghi che ha fatto volare il Pil e ha aumentato, di conseguenza, il loro benessere. Diciamo che se ne dimenticano.
Quando parlava Draghi di economia, Macron commentava: “se lo ha detto Draghi”. Come dire: non si discute. Potremmo dire che, di fatto, Draghi “governava” politicamente l’Europa con le sue idee per la forza della stima acquisita e riconosciuta da tutti per avere salvato l’euro e l’Europa, mentre oggi ci ritroviamo con un vice presidente del Consiglio Salvini che a Pontida dichiara pubblicamente che tra Macron e Marine Le Pen lui sceglierà sempre Marine e sono dichiarazioni che non possono non incidere sulle aspettative del ceto economico dirigente italiano e, quindi, sulla fiducia. Avendo alle spalle una storia europea in cui eravamo sempre gli ultimi non può non colpire il fatto di essere i primi durante il biennio magico di Draghi – anche Spagna, Germania e Regno Unito migliorano con le rivalutazioni, la Francia che era andata meglio perde un pochino, noi facciamo sempre meglio di tutti – e non può non colpire che la nostra manifattura alla quale nel 2021 era già stata attribuita una crescita record del 14,1% con le rivalutazioni passa al 15,1%. Davanti a questi numeri, non credo ci possa essere più nessuno che abbia la faccia tosta di parlare di rimbalzino. Perché le regole della decenza lo impediscono d’ufficio.
Avendo chi scrive raccontato il miracolo in assoluta solitudine su questo giornale quando la grande stampa economica scambiava un +12,3% come un’alternativa tra recessione tecnica o recessione profonda bruciando immoralmente fiducia e aspettative, vogliamo ricordare a tutti che il miracolo nascosto dell’Italia di Draghi che ho raccontato in modo compiuto in Riscatti e Ricatti (edizioni La Nave di Teseo) ha messo in mostra un grado di resilienza e di forza della nostra economia che ha saputo capitalizzare la risposta-lampo del governo alla pandemia che ha messo in sicurezza la nostra economia prima delle altre e la velocità della stessa azione di governo nella diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Purtroppo, nonostante questa super crescita rivalutata l’Istat ha dovuto confermare il deficit a -8% nel 2022 perché il vantaggio è stato tutto mangiato dagli effetti perversi del più venezuelano regalo ai ricchi della storia mondiale che è il Superbonus italiano al 110%. Per capire l’entità del miracolo generato in quella stagione, al netto di sussidi pubblici di stampo grillino di ogni tipo, è bene ricordare che nel 2022 gli investimenti fissi lordi sono aumentati in volume del 9,7%, i consumi finali nazionali del 3,9%, le esportazioni di beni e servizi del 9,9%. Per dire, insomma, che le costruzioni hanno dato il loro contributo ma minimo e onerosissimo, mentre il miracolo è venuto dal rilancio competitivo favorito dagli incentivi fiscali e dalla fiducia che riponevano in un leader come Draghi che li spingevano ad accelerare sugli investimenti.
Noi un Draghi lo abbiamo avuto e lo abbiamo mandato a casa. Questa ulteriore rivalutazione del Pil, purtroppo, non schizza fino a noi e anzi fa vedere in modo ancora più plateale il contrasto tra il motore ai massimi alimentato dalla benzina della fiducia e questa situazione di oggi dove siamo tornati sotto gli occhi vigili dei mercati. Non per qualche complotto internazionale, ma perché da agosto in poi si è rotto il giocattolo di Draghi e incrinata la fiducia a causa di alcune decisioni populiste. Il nostro spread resta lì dove è perché cala anche quello tedesco viste le debolezze della sua economia, ma il rendimento sui nostri titoli pubblici che è quello che pagano tutti gli italiani sale su tutte le scadenze e siamo umiliati ogni giorno dal confronto con Atene, non con Parigi. Perfino l’ex ministro Tremonti ha parlato di complotto dei numeri, non di complotto internazionale. Quella che è venuta a mancare, ma può essere ancora recuperata, è la fiducia.
Bisogna, però, avere almeno la consapevolezza che la barca italiana è quella che ha il problema più grande di tutte le barche del mondo a causa del suo debito e, come segnalano ormai ogni giorno le parole e i gesti di Giorgetti, i mercati non si chiedono nemmeno più se il debito non scende, ma sperano che almeno non riprenda a salire. Quello che Giorgia Meloni oggi non deve sottovalutare è che i mercati sono tornati a osservare l’Italia e non escludono più che sul piano politico resti un Paese prigioniero delle beghe di una classe dirigente che non riesce a trovare un equilibrio che garantisca una sana stabilità. Soprattutto, inevitabilmente, se non succede qualcosa che inverte la rotta dopo le sbandate populiste agostane, si convinceranno che proprio per queste beghe hanno mandato via l’uomo che aveva rilanciato l’Italia come mai dal Dopoguerra ad oggi. Smettiamola di guardarci l’ombelico e occupiamoci delle cose serie.
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