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Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini

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Non è possibile scrivere al comma 1 delle “clausole finanziarie” che da questa legge non derivano nuovi oneri a carico della finanza pubblica e al comma 2 che qualora i Lep li determinassero la legge provvede al relativo finanziamento. Il tempo dei giochetti di prestigio del federalismo all’italiana di Calderoli (2009) è finito perché gli atti parlamentari sono pubblici e certificano che tra aree metropolitane e interne, tra Nord e Sud, nei trasferimenti di spesa pubblica per scuola, sanità e trasporto ballano decine e decine di miliardi l’anno. Oggi tutti sanno tutto. L’inganno della spesa storica che indebitamente arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri grazie al lavoro di questo giornale è patrimonio comune. Forse solo il ministro lo ignora o meglio fa finta di ignorarlo. Questo teatrino della politica è incompatibile con un conservatorismo moderno che è ciò che garantisce al governo Meloni di durare un’intera legislatura e al Paese di beneficiare del valore aggiunto della stabilità politica che fa recuperare capacità realizzativa.

Sull’autonomia differenziata le presunte ragioni elettorali di un pezzetto di uno dei partiti della coalizione di governo, la Lega di Calderoli e Zaia, stanno mettendo in moto un meccanismo perverso di pericolosità che per fortuna è solo quello delle chiacchiere. Sì, quello delle chiacchiere perché sui fatti siamo a zero o, forse, sotto zero. La bozza Calderoli, l’ultima di una serie surreale in quanto sganciata dalla realtà, che si avvia all’esame del consiglio dei ministri sembra fatta apposta per essere quella di una legge la più equivoca possibile. Di modo che può avere come approdo il nulla assoluto, ipotesi per cui noi propendiamo, o quello di generare contenziosi infiniti davanti alla Corte costituzionale che rendono lo stesso, identico nulla anche paralizzante. In questo caso i danni aumentano.

C’è un articolo, però, il numero 8 che va sotto il nome di “clausole finanziarie” che è semplicemente irritante perché denota in modo impressionante l’assenza della benché minima conoscenza della situazione attuale di diritti di cittadinanza negati a venti milioni di persone denunciata da questo giornale oltre tre anni fa in assoluta solitudine e certificata dalle principali istituzioni contabili del Paese in sede di commissione di indagine parlamentare scaturita proprio dalle nostre inchieste giornalistiche.

Ma come si permette il ministro Calderoli di scrivere testualmente al comma 1 dell’articolo 8 che” dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” salvo subito contraddirsi al comma 2 dello stesso articolo mettendo nero su bianco che”qualora la determinazione dei LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard determini oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica, la legge provvede al relativo finanziamento”. Siamo su scherzi a parte? O siamo sulla luna dove non si sa che cosa accade sulla terra? No, siamo più verosimilmente alla riedizione maldestra della legge del federalismo fiscale all’italiana del 2009, firmata dallo stesso ministro, che ha dato i soldi di tutti ai ricchi e ha tolto i soldi di tutti ai poveri danneggiando l’economia dell’intero Paese e compromettendo in modo irrecuperabile l’equilibrio sociale delle due Italie. Questa è la realtà che nessuno scalpo elettorale, comprese le elezioni regionali in Lombardia, può giustificare.

Ministro Calderoli, guardi che il tempo dei giochetti di prestigio di allora (2009) è finito per sempre, perché gli atti parlamentari sono di dominio pubblico e in quegli atti è scritto che tra aree metropolitane e aree interne, tra Nord e Sud, nei trasferimenti di spesa pubblica per scuola, sanità e trasporto pubblico locale ballano decine e decine di miliardi l’anno. Oggi tutti sanno tutto. L’inganno della spesa storica che arricchisce indebitamente i ricchi e impoverisce indebitamente i poveri grazie al lavoro di questo giornale è patrimonio di conoscenza comune. Forse solo lei lo ignora o meglio fa finta di ignorarlo se arriva a scrivere uno schema di disegno di legge dove si legge, volutamente ripetiamo, che “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Un’affermazione di questo tipo può essere vera a una sola condizione e, cioè, che nel bilancio pubblico italiano sia scritto che quelle decine di miliardi indebitamente trasferite in più ai ricchi vengono restituite ai poveri a cui sono state indebitamente sottratte. Siccome l’obiettivo di chi vuole l’autonomia differenziata è quello di consentire alle regioni che hanno più entrate fiscali – anche grazie a quanto ricevono in più come trasferimento dello Stato – di trattenersene un altro po’, mi sembra evidente che raccontiamo barzellette perché anche quello che dispone il comma 2 (di fatto: se ci sono oneri in più per la finanza pubblica, la legge provvede al relativo finanziamento) oltre che contraddittorio con il comma 1 è anche ugualmente surreale in modo totale perché non esiste oggi la capacità fiscale per trovare decine e decine di miliardi in più da erogare non una tantum ma per tutti gli anni avvenire.

Siamo seri, per piacere! Questo teatrino della politica è incompatibile con il disegno compiuto di un conservatorismo moderno che è il segno che può garantire al governo Meloni di durare un’intera legislatura e al Paese di beneficiare del valore aggiunto della stabilità politica e dell’effetto collaterale ma cruciale del recupero di capacità realizzativa. La scelta di unire le deleghe europee sotto un’unica guida, quella del ministro Fitto, che ha già superato molte prove in casa e in Europa, è quella giusta e può consentire di operare per ridurre i divari in una logica di Paese che vuole ricomporre la sua frattura e garantirsi una crescita duratura che altrimenti non ci sarebbe. Il Mezzogiorno italiano, d’altro canto, oggi non è solo la porta del Mediterraneo per l’Europa, ma anche l’unica opportunità per garantire all’intero Vecchio Continente una prospettiva di crescita aggiuntiva. Per ragioni geografiche e storiche determinate dalla riglobalizzazione e dalla guerra mondiale delle materie prime in atto a causa del combinato disposto tra crisi pandemica e carri armati russi a Kiev nel cuore dell’Europa. A maggior ragione, in un contesto così delicato a livello internazionale che rende strategico il Mezzogiorno per l’Europa oltre che per l’Italia, è obbligatorio fare leggi semplici e applicabili quando servono, non quando possono fare solo danni. In questo caso siamo di fronte a leggi che vanno concettualmente contro gli allarmi lungimiranti di Ugo La Malfa e di Giorgio Almirante sulle nuove Regioni che avrebbero prodotto solo clientele e frantumato la patria. Avevano visto giusto, lo hanno capito tutti, è la domanda di oggi è: che cosa ci può imporre di continuare a fare finta di volere proseguire su questa strada sbagliata?

Se a tutto ciò si aggiunge poi che la finzione elettorale impone anche la complicazione normativa espressione del compromesso politico di turno, allora deve essere chiaro a tutti che l’autonomia delle chiacchiere diventerebbe il detonatore di un conflitto permanente tra governo e Regioni minando l’unità del Paese e indebolendo strutturalmente la competitività dello Stato italiano e, di riflesso, della sua economia. Se in una parte della Destra di governo sta aumentando la convinzione che va difeso il patrimonio di credibilità conquistato da Giorgia Meloni in campagna elettorale bandendo promesse che era impossibile mantenere e rafforzato nei suoi primi cento giorni superando i test dei mercati e dell’Europa, allora ci si sottragga al circolo delle chiacchiere pericolose e non si commetta l’ingenuità di nascondere la polvere sotto il tappeto.

Se sei una forza nuova che arriva al governo non potrai dire dopo almeno per un po’ “ho commesso un errore, ma nel passato ho fatto cose mirabolanti” perché qui il passato di governo non esiste, non hai nulla da rivendicare o da venderti. Sarebbe, dunque, davvero un peccato sprecare gli effetti benefici della buona prova fornita nei primi cento giorni. Potremmo dire meglio che sarebbe imperdonabile.


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