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Palazzo Chigi

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Se vuoi farla di lungo termine, hai una sola arma: lavorare giorno e notte per consolidare la costruzione già avviata dell’ecosistema buono fatto di riforme di struttura e di investimenti privati aggiungendo il tassello mancante di un ritmo di investimenti pubblici che metta a frutto i fondi europei e funzioni da moltiplicatore. Se non si vogliono spegnere i motori dell’economia italiana riaccesi dal governo Draghi mentre tutti raccontavano l’opposto, non basta il sano realismo della finanza pubblica. Urge che i ministri di economia e infrastrutture e chi gestisce la cassa europea (Fitto) facciano una full immersion per stanare le rendite delle Regioni e rimettere in circolo le risorse che ristagnano nei ministeri. Bisogna costringere tutti a dire che obiettivi hanno finalizzando operativamente i loro programmi in un quadro che si fa a livello nazionale e si esegue nei tempi prestabiliti utilizzando i poteri straordinari di governance voluti da Draghi e, se necessario, aumentandoli. Attenzione, però, a non prestare il fianco sul lato delle riforme e a calcare troppo sul passaparola del disastro ricevuto perché la partita decisiva degli investimenti finisce prima del fischio di inizio

Non era scontato che la Meloni formasse un governo così velocemente. Non era scontato che portasse a casa una legge di bilancio che il mondo degli investitori globali archiviasse unanimemente come scampato pericolo. Si è fatta una manovra con la testa sulle spalle che è l’esatto opposto di quella varata dal Conte 1 giallo verde che fece ballare i titoli sovrani italiani. La conferma viene dal fatto che lo spread è sceso e continua a scendere.

Bisognerebbe, tuttavia, che qualcuno riflettesse sulle parole di Luis De Guindos, attuale vice presidente della Bce ed ex ministro dell’economia spagnolo, che ha ripetuto anche ieri a Milano che l’Italia è l’unico Paese europeo con la Germania ad avere avuto un avanzo primario prima del Covid e anche l’unico Paese europeo ad avere un significativo attivo delle partite correnti con l’estero al netto dello schock energetico di origine bellica anche qui da solo in coppia con la Germania. Come aveva già detto tante volte, De Guindos ha ripetuto che questi due elementi di fondo della nostra economia non giustificano il differenziale dell’Italia rispetto alla Spagna in termini di spread e  di rendimento. Ha, però, voluto ricordare che l’Italia ha un unico problema che è il suo debito pubblico e ha un solo modo per renderlo sostenibile: fare crescita attraverso gli investimenti pubblici e privati e, soprattutto, attraverso le riforme che creano un ecosistema dove quegli stessi investimenti sono favoriti non dal navigator di turno che si inventa un lavoro che non c’è e, dunque, fallisce, ma da una crescita vera che si costruisce solo facendo come da programma il secondo pezzetto di riforme della giustizia, della pubblica amministrazione e della governance centrale di gestione dei fondi europei con la stessa incisività con cui il governo di unità nazionale ha portato a termine il suo primo pezzetto. 

Siamo un’economia che tranne i due anni da locomotiva europea sotto la guida del duo Draghi-Franco – si è riusciti nel miracolo di riaccendere l’economia sotto la spinta della fiducia e della ritrovata reputazione – ha sempre fatto molta fatica a causa del debito pubblico e dell’invecchiamento della sua popolazione. Se parli con un investitore internazionale americano, inglese o di qualunque nazionalità è molto probabile che ti dica che adora l’Italia e che ha anche una bella casa in Toscana, ma che lui non ha investito in Italia perché le procedure fallimentari durano quindici anni e il suo fondo calcola la redditività degli  investimenti di ogni tipo su altre unità di misura temporali. Questo stesso investitore ti aggiungerebbe anche che il governo Draghi con le riforme fatte e la credibilità internazionale dei suoi comportamenti e della leadership globale espressa da chi lo guidava gli stava facendo cambiare idea, anzi in alcuni casi ti dirà che ha già aggiornato i suoi programmi Paese di investimenti inserendo l’Italia al posto della Spagna. 

Ecco ci permettiamo di dire a Giorgia Meloni e ai tre uomini chiave della politica per favorire la crescita possibile italiana – Giorgetti, Fitto e Salvini – che il futuro dell’Italia è tutto nelle loro mani non se si aggiusta qui e là qualche spicciolo in più o in meno di tassazione, ma se fanno proseguire il processo riformatore compiuto avviato da Draghi che ha riacceso gli investimenti privati manifatturieri italiani, ha attratto capitali internazionali e ha ridotto come nessuno mai prima diseguaglianze e rischio povertà. Se saranno capaci di farlo proseguire sui fronti decisivi della giustizia, della pubblica amministrazione e della macchina degli investimenti. Soprattutto, se tutto ciò avverrà senza strappi, migliorando anche molto dove c’è da migliorare, ma senza i soliti balletti italiani che ci hanno condannato per almeno due decenni ad essere il fanalino di coda europeo della crescita. 

Si deve smentite con i fatti lo stereotipo nefasto che ogni governo italiano che arriva cambia tutto. Anche perché il miracolo economico italiano dei venti mesi di governo Draghi è partito proprio dalle riforme di sistema e ha convinto la comunità finanziaria degli investitori che il cambiamento italiano era effettivo e sarebbe durato nel tempo. Se cade questo presupposto, cade tutto, perché in questo caso dovresti proprio amarlo questo Paese per continuare a decidere di investire sull’Italia. Puoi farlo certo ma non è solo agendo sulla leva fiscale, peraltro con ambiti modesti di intervento e qualche timido principio di ineguaglianza di impronta leghista, che fai la crescita. Né puoi alla lunga sostenerla con i consumi che fanno anche inflazione aggiuntiva quando è questo il mostro da abbattere. 

Se vuoi fare crescita davvero di lungo termine, quella che serve all’Italia, e dare visione effettiva a un Progetto Paese che duri questa legislatura e ipotechi quella futura, hai una sola arma: lavorare giorno e notte per consolidare la costruzione già avviata dell’ecosistema buono italiano fatto di riforme di struttura e di investimenti privati aggiungendo il tassello che ancora manca e che è quello di un ritmo di investimenti pubblici che metta a frutto tutti i fondi europei e funzioni da moltiplicatore interno di tutto. Se non si vogliono spegnere i motori dell’economia italiana riaccesi dal governo Draghi mentre tutti compreso le organizzazioni di rappresentanza di imprese e di lavoratori raccontavano l’opposto di quello che accadeva, non basta il sano e opportuno realismo della finanza pubblica.

Urge che i ministri dell’economia, delle infrastrutture e soprattutto chi gestisce la cassa di tutto che è Fitto si mettano insieme in una full immersion che consenta di sfruttare le preziose informazioni del cervellone (Regis) della Ragioneria generale dello Stato perché si stanino le rendite di posizione delle Regioni che non rinunciano a piazzare i loro progetti sponda ovunque. Perché si possano recuperare tutti i meccanismi che consentano di rimettere in circolo le risorse che ristagnano anche nei ministeri. Questo lavoro, tocca soprattutto a Fitto, e va fatto senza guardare in faccia amici e amichetti e costringendo le Regioni non a dire quanto spendono, ma che obiettivi hanno finalizzando i loro programmi dentro un quadro di scelte chiare che si fa a livello nazionale e si esegue nei tempi prestabiliti utilizzando tutti i poteri straordinari di governance voluti da Draghi e, se necessario, aumentandoli. 

Bisogna liberare il Paese dal gioco delle tre carte dei cacicchi regionali di turno e i ministeri dai capi delle rendite private. Perché l’operazione funzioni bisogna, però, agire nel solco tracciato da Draghi e rendere il processo pubblico anche in tutti i cambiamenti che lui stesso avrebbe apportato e in quelli nuovi che in modo legittimo e sacrosanto chi è stato chiamato a  governare decide di operare. Attenzione, però, a non prestare il fianco sul lato delle riforme e a calcare troppo sul passaparola del disastro ricevuto perché la partita decisiva degli investimenti finisce prima del fischio di inizio.


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