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PENSIONI 2024: ci sono stati dei momenti in cui mi era sembrato di stare seduto lungo un fiume mentre passava il cadavere del mio nemico, quel pensionamento anticipato che considero il ‘’male oscuro’’ del nostro sistema pensionistico e la causa principale dello squilibrio intergenerazionale che ne determinerà la crisi. Perché arriverà un momento i cui le nuove coorti di lavoratori contribuenti si chiederanno se sia giusto garantire ai padri e ai nonni i trattamenti che hanno organizzato su misura per sé, mandando il conto da pagare, in un sistema finanziato a ripartizione (sono i lavoratori attivi che pagano le pensioni in essere), alle generazioni future.

La difesa dei trattamenti anticipati è stata una battaglia storica della Lega, perché questa tipologia di pensione è quella tipica dei lavoratori maschi residenti al Nord, entrati presto e restati a lungo e in modo stabile nel mercato del lavoro e quindi in grado di andare in quiescenza ad un’età da anziano/giovane e restarci a lungo grazie all’incremento della speranza di vita. Sono le generazioni del baby boom che hanno costruito per sé un sistema pensionistico ragguagliato alle loro condizioni di vita e di lavoro; dall’altra parte della barricata ovvero in quelle che sono e saranno le platee dei nuovi contribuenti i processi naturali si sono invertiti sotto la spinta di due fattori implacabili e difficilmente correggibili: l’invecchiamento e la denatalità.

Le pensioni di oggi e dei prossimi anni proiettano sul sistema la luce di una stella spenta: una condizione di lavoro e di vita superata nella realtà si ritrova in pensione con le stesse regole di un mercato del lavoro che sopravvive soltanto nei bilanci dell’Inps. Nel 2023 in Italia si contano circa 10 milioni 200mila giovani in età 18-34 anni; dal 2002 la perdita è di oltre 3 milioni (-23,2%). L’Italia è il Paese Ue con la più bassa incidenza sulla popolazione di persone di età compresa tra 18-34enni (nel 2021 17,5%; media Ue 19,6%). Anche il Mezzogiorno (già prolifico) presenta una perdita netta di giovani nonostante ce ne siano di più rispetto al nord: la quota di chi si trova tra i 18 e i 34 anni è maggiore nel Mezzogiorno (18,6%) rispetto al Centro-nord (16,9%), ma la flessione è molto severa (-28% dal 2002). Persino le famiglie di immigrati, una volta stabilizzati, cominciano a ridurre il numero dei figli. Negli ultimi quattro decenni la speranza di vita alla nascita è passata da 69,6 anni nel 1976 a 80,6 nel 2016 per gli uomini e da 76,1 a 85,1 per le donne; un 65enne ha visto crescere la propria speranza di vita residua di circa 5-6 anni e un 80enne di 3 anni; il prolungamento della durata media della vita degli italiani ha interessato quasi in ugual misura tutto il territorio nazionale, da Nord a Sud.

Ecco perché, prima di ogni altra considerazione di carattere economico e finanziario si pone una questione di platee di sistema: mentre il numero delle pensioni proviene da generazioni prolifiche e quindi numerose (per altro con storie lavorative lunghe e stabili e ancora in età intorno ai 60 anni al momento dell’accesso e con aspettative di fruizione almeno ventennale), quello dei contribuenti non potrà che diminuire in corrispondenza della progressiva riduzione delle nascite. E, ammesso che sia possibile, si potrà provvedere solo per il futuro, non certo riequilibrare ex post delle generazioni vittime della denatalità. Sono due mondi diversi che si incontrano, ma che potrebbero anche scontrarsi, perché, al dunque, le generazioni precedenti si portano appresso dei diritti che si sono riconosciuti in proprio, ma le risorse per onorarli saranno nelle mani delle generazioni future.

Il governo Meloni se ne è reso conto? Con le poche risorse di cui dispone tenta di impostare una politica a favore della natalità in un contesto molto compromesso (un demografo, Alessandro Rosina, sostiene che abbiamo appena quindici anni di tempo per avviare un cambiamento prima che il declino divenga irrecuperabile). Ma un minimo di riequilibrio passa, per evidenti motivi, anche da un allungamento della vita lavorativa. Giancarlo Giorgetti lo aveva ribadito con una chiarezza rara in un uomo politico per di più in quota Lega: “Non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel medio-lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo in questo paese”. Così nelle bozze del disegno di legge (ddl) di bilancio per il 2024 ci è parso di riscontrare un’inversione rispetto al passato anche recente:  non favorire, ma ridurre le possibilità di uscita anticipata. Più o meno cinque anni or sono, il governo giallo-verde, col pretesto di spalancare le porte delle aziende ai giovani in sostituzione degli anziani in grado di ritirarsi anticipatamente, aveva inventato due misure: la prima, strombazzata  in tutti i talk show, ripristinava il meccanismo delle quote, inventato dall’ultimo governo Prodi;  la seconda, più insidiosa ma meno messa in evidenza nel dibattito, consisteva nel blocco fino a tutto il 2026 dell’adeguamento automatico dei requisiti pensionistici all’incremento dell’attesa di vita, che aveva stabilizzato per anni il pensionamento anticipato ordinario, a prescindere dall’età anagrafica, a 42  anni e 10 mesi di anzianità contributiva  per gli uomini e a un anno in meno per le donne. Il regime delle quote poi ha preso la mano al legislatore: da quota 100 (62 anni + 38 di contributi), si è passati a quota 102 (64 anni + 38 di contributi), e ancora a quota 103 (62 anni e 41 di contributi). Alla fine, per il 2024, pare si siano superate le resistenze di Salvini, su quota 104 (63 anni + 41 di contributi) caricando però la possibilità di uscita di ulteriori vincoli. Il sistema delle pensioni è tutt’altro che flessibile, perché i due parametri non vanno sommati ma conseguiti entrambi.

Nella maggioranza dei casi è capitato che quanti avevano maturato il requisito contributivo non avessero acquisito quello anagrafico e viceversa. Così chi ha dovuto continuare a lavorare per maturare uno dei requisiti, incrementava anche l’altro. Sembrano confermate delle penalizzazioni economiche (limitatamente alla quota retributiva per chi si avvalga del pensionamento anticipato). In generale, un allungamento dei tempi di accesso pare prevista anche per Opzione donna e l’Ape sociale. La misura più importante e l’unica di carattere strutturale riguarda, però, la riduzione di un paio di anni del blocco dei requisiti all’adeguamento all’attesa di vita, che ripartirebbe dal 1 gennaio 2025 anziché del 2027.  

Su questa norma pesava un enorme punto interrogativo rispetto a che cosa fare alla sua scadenza, essendo, nel contempo, il meccanismo che garantiva i maggiori risparmi di spesa ma anche il maggior incremento dei requisiti per il pensionamento negli anni a venire. Ma, al di là del folklore delle quote, se confermato, sarà questo il vero ritorno della riforma Fornero.


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