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Il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo

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CATANZARO – Integrazione dei sistemi criminali italiani. Tavoli di gestione di interessi condivisi tra le mafie. Addirittura c’è una Opec del narcotraffico che stabilisce prezzi e criteri di esportazione. Ormai non c’è indagine che non riveli la collaborazione fra le varie mafie italiane, e addirittura la ‘ndrangheta reggina interviene su processi di selezione della criminalità foggiana. C’è anche questo fra i temi sviscerati dal Pna Giovanni Melillo nel corso della sua audizione sulle mafie in Commissione parlamentare antimafia del 27 giugno scorso, stando al resoconto, ora trascritto, della parte non segreta. Pur ribadendo che le differenze tra organizzazioni mafiose italiane esistono e sono ancora molto importanti, Melillo ha parlato di processi di integrazione soprattutto nelle proiezioni transnazionali delle mafie taliane e nella dimensione prettamente affaristica, vale a dire nella penetrazione nei mercati di impresa italiani.

A questo proposito ha fatto riferimento al caso di «Petrolmafie», un’inchiesta della Dda di Catanzaro in materia di controllo criminale delle attività di importazione e distribuzione sul territorio italiano di oli minerali e di idrocarburi. Un caso che dimostra «l’integrazione dei sistemi criminali calabresi, romani e napoletani sotto la regia societaria di gruppi napoletani». Le società cartiere che producevano le false fatturazioni necessarie al funzionamento di un gigantesco meccanismo di sottrazione di questi prodotti al pagamento delle accise erano, infatti, quasi esclusivamente napoletane.

Ma c’è di più. «Vi sono indagini di procure importanti che riguardano proprio il fenomeno della costituzione di tavoli condivisi di gestione di comuni interessi speculativi in vari settori economici», svela Melillo. Nel settore del narcotraffico, poi, «è del tutto evidente che le distanze originarie tra i vari tipi di organizzazioni mafiose italiane vanno a stemperarsi. Anche qui vi è una dimensione di progressiva integrazione». Una recente inchiesta condotta dalle Procure di Reggio Calabria e di Milano su enormi traffici di cocaina evidenzia che «le funzioni di brokeraggio anche per conto della ‘ndrangheta erano svolte da figure storicamente esponenziali di interessi camorristici, ma ormai trasferitesi su un piano globale».

Melillo torna così sulla Opec degli stupefacenti, vale a dire su una «organizzazione che definisce il prezzo degli stupefacenti e soprattutto i criteri di ripartizione delle mafie delle rotte degli stupefacenti verso l’Asia, verso il Nord America, verso l’Europa e che vede riuniti i rappresentanti dei più grandi cartelli criminali». Le mafie si sono anche attrezzate per sfuggire ai sistemi antiriciclaggio attraverso cambi clandestini o, più precisamente, cambi paralleli. Melillo si è soffermato sulla figura dei «cambisti», vale a dire coloro che «trafficano denaro e che quindi assicurano, grazie a contatti e a transazioni che si realizzano di regola attraverso piattaforme criptofoniche o, in generale, comunque reti cibernetiche, la disponibilità di grandi quantità di denaro che sono preventivamente collocati nei vari Stati. In tal modo il denaro non si sposta e sfugge ai controlli tipici del sistema antiriciclaggio che sono appunto fondati sul presupposto che il denaro si sposti tra una giurisdizione e un’altra, tanto che, quando il sistema antiriciclaggio funziona, si determina l’innalzamento del costo del denaro oggetto di riciclaggio». Così si abbattono i costi di transazioni che arrivavano fino al 15 per cento. «È un problema assai serio che è emerso in indagini molto delicate, attualmente in svolgimento contestualmente presso diverse procure, Milano, Roma, Napoli e Reggio Calabria – ha detto Melillo – A queste quattro indagini è contestualmente applicato un magistrato della Procura nazionale proprio per assicurare una sorta di continua osmosi informativa ed è del tutto evidente che stiamo parlando di operatori paralleli che godono del vantaggio di un’allocazione fisica protetta – Pakistan, Cina, Libano, una volta Siria. In precedenza era significativa la loro presenza anche negli Emirati Arabi Uniti, ma alcuni sforzi del governo degli Emirati di acquisire maggiore credibilità sul piano della trasparenza dei mercati finanziari sembra aver determinato lo spostamento di alcuni di questi operatori verso altri Paesi».   

Queste forme integrazione in network internazionali delle organizzazioni criminali pongono «sfide alte alla comunità degli Stati». Melillo si è soffermato sul concetto di prova digitale e ha sottolineato che «l’usuale visione del cyber crime come fenomeno criminale separato dalle strutture criminali più pericolose è una visione destinata a rivelarsi incapace di spiegare granché. Il cyber crime – ha precisato – è tema che non si esaurisce nella criminalità mafiosa e nella criminalità terroristica, ma le reti cibernetiche sono ormai un cardine organizzativo comune sia delle reti mafiose sia delle reti terroristiche. Ne risulta dunque tutta la dimensione di una sfida sul versante della sicurezza cibernetica rispetto alla quale siamo in grave ritardo». L’idea stessa di sicurezza nazionale cibernetica è di recente introduzione e Melillo rileva che nello statuto normativo dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale non vi sia alcun riferimento a competenze dell’autorità giudiziaria: «questo è un problema, che peraltro è oggetto di interlocuzioni istituzionali – ha detto ancora – perché è evidente che un attacco informatico non è soltanto un reato, può essere ben altro, può essere persino un problema di sicurezza nazionale dinanzi al quale la giurisdizione deve fare passi indietro, non per mia valutazione, ma perché il legislatore prevede espressamente la potestà del Presidente del Consiglio dei ministri di ritardare per alcuni mesi persino la trasmissione della notizia di reato all’autorità giudiziaria. Vi è quindi un percorso di una gerarchia di piani di valori e di interessi da tutelare normativamente fissata e anche consacrata in pronunce della Corte costituzionale. Però va detto che quando la notizia di un attacco cibernetico giunge all’autorità giudiziaria, quell’attacco non è solo un reato, ma è anche un reato e si pone un problema di coordinamento fra le competenze proprie dell’Autorità per la cybersicurezza nazionale e le competenze proprie dell’autorità giudiziaria».

Una materia che esige, dunque, una «rivisitazione, anche dal punto di vista della possibilità di condurre tempestivamente indagini che riguardino gli attacchi cibernetici di matrice terroristica e di matrice prettamente criminale alle quali temo che il futuro ci imporrà di abituarci». Circa i profili di collegamento tra le mafie, Melillo ha parlato di rapporti tra la criminalità foggiana e la ‘ndrangheta, in particolare le famiglie reggine. «Vi è una serie di indici innovativi che dimostrano come gli stessi processi di selezione delle leadership delle organizzazioni mafiose foggiane a un certo punto richiedano il placet, anche all’interno del sistema carcerario, dei vertici delle famiglie di ‘ndrangheta reggine. Sono processi che hanno ovviamente radici profonde, come quelli che hanno segnato i rapporti tra criminalità pugliese e criminalità camorristica che, proprio perché lasciati sottovalutati e lasciati sviluppare senza adeguato contrasto, danno la misura della pericolosità estrema di questo fenomeno». Gioia Tauro resta un hub importante del traffico degli stupefacenti, ma anche i porti liguri, come Vado, Genova e La Spezia, e i porti toscani come Livorno, i porti del Lazio, come Civitavecchia, quelli campani come Napoli e Salerno, svolgono un ruolo importante nel narcotraffico internazionale. Anche per questo «sono in corso contatti con le autorità francesi e spagnole per realizzare una sorta di polo investigativo unitario in grado di seguire con maggiore efficacia le attività di importazione di stupefacenti che si realizzano anche intorno alle infrastrutture catalane e francesi».

I parlamentari antimafia hanno stimolato il procuratore anche su una tema al centro di contrapposizioni politiche. Melillo si era già espresso alla Commissione Giustizia della Camera, ma lo ha ribadito anche in Commissione antimafia che sarebbe un errore eliminare l’abuso d’ufficio anche nella lotta alle mafie. «È del tutto evidente che vi sono profili di condotte abusive di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio del tipo di quelle finalizzate al procacciamento di vantaggi ingiusti, che normalmente hanno trovato applicazione anche in contesti investigativi mirati alla ricostruzione di complessi interessi mafiosi».

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