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MI sono trovato, spesso, come altri, dinnanzi a qualche avvenimento pubblico inquietante e indecifrabile, a domandarmi cosa avrebbe potuto dire o come avrebbe saputo commentare Pier Paolo Pasolini. Riconoscendo così valore profetico e potenza etica alle parole del poeta. Ma se Pasolini ha avuto il dono della profezia, pagata con un inenarrabile dolore e con lucida sofferenza, dobbiamo – immagino – essere capaci di leggere le sue parole alla luce del presente e non indaffararci a ipotizzare quali altre parole avrebbe potuto dire. Pasolini ha pronunciato parole di verità, valide per il presente, attuali, premonitrici, come  possiamo leggere nella sua lettera al dottor Nicolini, scritta nel 1959 all’indomani della sua venuta in Calabria per il premio Crotone.  Pasolini conosceva bene la Calabria, la sua storia e la sua poesia e conosceva le culture locali e tradizionali dell’Italia, a cominciare da quelle del Friuli per arrivare a quanto “resisteva” nelle borgate romane. I suoi studi e le sue pubblicazioni sulla poesia popolare restano ancora un omaggio a un mondo di miseria, di cui come dice Pasolini nella lettera, non bisogna vergognarsi (come scriveva anche Alvaro in una sua celebre nota di viaggio). La vergogna non consiste in ciò che si è o in ciò che si ha, ma nel presentarsi come non si è, nell’inseguire modelli esterni, nel fuggire dalla propria storia.

La nostalgia di Pasolini, come affermava nel 1975 nella celebre polemica con Calvino, non è mai rimpianto sterile del passato, ma rispetto e pietas di un mondo che è stato e non c’è più, ma critica del presente, del “mondo così com’è”, della convinzione che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Pasolini ci preannunciava quello che, nel tempo avremmo visto e, forse, ci invitava a scongiurare le derive di cui poi “noi” calabresi siamo stati capaci. O incapaci. L’incapacità di costruire un’identità non retorica, aperta, non dipendente dalle immagini esterne. La nostra presunta “identità” è fatta di retoriche e di fughe all’indietro, nella tendenza a magnificare una “classicità” scomparsa e non “viva” e realmente rigeneratrice, come aveva ricordato Alvaro. Un’identità non per sé o in relazione all’altro, ma spesso contro l’altro, fatta di risentimenti, di rivalse, di richieste, di lamentele, di localismi, di leghismi alla rovescia.  La psicologia della persecuzione, che spesse volte si trasforma in psicologia degli assediati e che si traduce nella difesa, comunque, di un “noi” che tende ad assegnare le colpe di quello che accade sempre agli altri, ai forestieri, ai governanti nazionali, a chi non ci comprende, a chi ci sfrutta. Pasolini metteva in guardia contro questa psicologia e, invece, abbiamo fatto di tutto perché la sua “profezia” (temuta) si avverasse.  

Esaltiamo coste, paesaggi, montagne, colline e tutto abbiamo abbandonato, devastato, avvelenato. Tanto, la responsabilità è sempre degli altri. E ogni volta che il presente ci inchioda alla nostra “ultimità”, alla presenza inquietante della ‘ndrangheta, alla commistione malavita, politica, amministrazioni e professioni pubbliche, agli indici elevatissimi di disoccupazione, alla mancanza di servizi, all’abbandono dei centri storici e alla devastazione dei luoghi, si alzano subito i retori dell’identità, che idealizzano il passato, invocano un paradiso mai esistito, inventano il buon tempo antico. Se qualcuno ci ricorda la presenza ossessiva e oppressiva della criminalità, eccolo subito il nostro politicante (o il suo ammiccante servo) a ricordarci che non tutto è ‘ndrangheta, che la Calabria è anche altro. Se poi qualcuno cerca di segnalare, con fatica, con gentilezza, le positività della regione, ecco l’altro volto del calabrese che si lamenta che siamo soli nel contrastare la ‘ndrangheta.  Siamo bravi nel passare dall’autodenigrazione all’autoesaltazione, dall’autodistruzione all’autocompiacimento. Mancanza di regole, di normalità, di sguardo lucido, di pensare noi stessi senza avere bisogno dell’Ombra degli altri. Sì perché l’Ombra che dobbiamo riconoscere, assumere, contrastare è la nostra: sono le nostre oscurità, i nostri passaggi sotterranei, la nostra “ombrosità”, il lato inquietante e ingombrante della nostra storia.

Tra di noi e di noi ci diciamo le cose peggiori: siamo i precursori del metodo Boffo, ma guai poi a sentire parlare male della Calabria. Ecco il rancore, il risentimento, l’ombrosità. Per un malinteso senso del “noi”, per bisogno, per soggezione, per indulgenza, per carità di “patria”, ma anche per convenienza, tendiamo a chiudere gli occhi dinnanzi a tutto. Facciamo come gli struzzi, come con grande profondità scriveva e temeva Pasolini. Non vediamo niente, non sentiamo, non sappiamo. La colpa è sempre degli altri. Crediamo alle favole e alle leggende metropolitane. Qui si impegnano miliardi di spesa (o di false spese) senza sapere quale atto si è firmato, si candidano nelle proprie liste indagati, condannati, inquisiti perché non sappiamo chi abbiamo candidato, si costruiscono depuratori inesistenti. Solo da queste parti un sistema di potere soffocante viene proposto come “modello”.  La vergogna, caro Pasolini, è scomparsa. La ricchezza acquisita non si sa come (o si sa troppo bene) e il potere di disfare e non fare sono esibiti come titolo, come qualità, come segno di novità e di cambiamento. 

 Non è un processo giudiziario, come insegnavi tu, ma è un processo politico. Non ho le prove dicevi, ma conosco i responsabili, li conosciamo tutti, a memoria, uno per uno. Soltanto siamo incapaci di indignarci, di mandarli a casa, di chiedere loro conto, e tutti in qualche modo, per pigrizia, per viltà, per comodità, per mancanza di prospettiva, per sfiducia, per inesistenza dell’opposizione e della società civile, facciamo parte di un bel bestiario di struzzi. E quelli che provano, e non sono pochi, ad alzare la testa, a guardare verso il cielo, a cercare la luce, scontano la solitudine e rischiano l’isolamento, quando non l’annientamento. In fondo nascondere la testa nella sabbia, è comodo, conviene. Non vediamo gli altri e ci si illude di non essere visti. Salvo poi a scoprire che anche quella “sabbia” nella quale nascondiamo la testa è inquinata, avvelenata, mortale. Per tutti. Alvaro, Pasolini, molti altri con minore intensità, forse con minore efficacia, anche se non con minore tormento, hanno provato a dirlo, ma i poeti e i profeti qui non hanno fortuna oppure debbono attendere qualche secolo come è capitato all’abate Giocchino e a Campanella.

 Grazie Pasolini, domani sarò in buona compagnia, con un poeta come te, perché qualcuno mi accuserà di avere calunniato la Calabria e di avere seminato pessimismo o di avere generalizzato. Continuino a farsi del male e a fare del male, a comportarsi come struzzi, certo geneticamente modificati, ma sempre uguali alle “bestie” che vogliono restare con gli occhi chiusi, immaginando, erronaemente, di non essere visti. 

 

 

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