7 minuti per la lettura
CUTRO (CROTONE) – Tre ore nelle acque gelide di Steccato di Cutro. È morto di freddo, non annegato, stando alla testimonianza di suo zio, quel bimbo di sei anni. Quel bimbo, qualche giorno prima, era stato sgridato da uno degli scafisti perché faceva un video con un cellulare mentre i disperati si imbarcavano. Un particolare agghiacciante, che si ricava da una delle prime (tre) testimonianze approdate ieri al vaglio del gip del Tribunale minorile di Catanzaro Donatella Garcea nel corso dell’incidente probatorio a carico di un presunto trafficante non ancora maggiorenne, difeso dall’avvocato Salvatore Perri.
Quel bimbo, mentre nelle acque di Steccato naufragava un barcone facendo almeno 86 vittime, si era tuffato insieme al fratello e allo zio che si sbracciavano ma forze dell’ordine e soccorritori da terra non li vedevano. Quell’anima innocente che ha patito l’inferno, che è giunto morto in spiaggia tra le braccia del fratello, qualche giorno prima, mentre saliva sulla carretta, è stato rimproverato da uno degli organizzatori della tragica traversata, al punto che suo zio ci ha quasi litigato. Il cellulare con cui, magari per gioco, aveva scattato qualche immagine ormai è nei fondali, inabissatosi insieme al diritto negato di un’infanzia felice.
«Ho lasciato la Siria nel 2015 per raggiungere la Turchia, dove ho vissuto per otto anni lavorando come pavimentista e muratore» ha detto il superstite, un siriano, agli inquirenti, e l’ha confermato in aula, incalzato dalla sostituta procuratrice presso il Tribunale dei minori Maria Rita Tartaglia ma anche dall’avvocato Francesco Verri, del pool di legali che assistono (gratis) i familiari delle vittime.
«Dopo tanti tentativi andati a vuoto per arrivare in Italia, in cui sono stati arrestato, ho contattato, tramite Facebook, il palestinese Abo Naser, conosciuto tramite un amico il quale ha organizzato questo viaggio… La partenza era da Izmir, prima con altri migranti mi sono recato in una casa a Istanbul dove siamo stati nascosti per una notte. Siamo partiti di notte e siamo arrivati a bordo di un camion con altre 130 persone a Izmir». Gli è rimasto impresso, quell’uomo che ha sgridato il nipote, un pakistano, che poi ha riconosciuto come componente dell’equipaggio. «Ha sorpreso mio nipote filmare con il cellulare e l’ha rimproverato, e io ho litigato con lui». Il racconto prosegue con il cammino in un bosco e l’arrivo in spiaggia. «È arrivata quest’imbarcazione e siamo stati fatti salire, iniziato il viaggio, dopo alcune ore la barca ha avuto un’avaria e il personale dell’equipaggio ha fatto arrivare una seconda imbarcazione mentre ci hanno detto che la prima barca era affondata».
La testimonianza è importante anche perché l’uomo riconoscerebbe gli scafisti. «La seconda imbarcazione era guidata da due turchi e dal siriano i quali si alternavano. Ricordo che il siriano era di corporatura robusta ed era anche un meccanico poiché faceva manutenzione al motore. Oltre a loro, dell’equipaggio c’era anche un altro turco che aveva un tatuaggio con la forma di due lacrime sullo zigomo destro, che non guidava ma dava ordini a tutta l’imbarcazione. Mi è sembrato essere una sorta di capo perché dava gli ordini agli altri componenti dell’equipaggio. Lui era sempre seduto. Poi c’erano i due pakistani, uno che era quello che ha gestito lo spostamento da Izmir alla prima barca. Ricordo che tutti e due gestivano la folla sulla seconda imbarcazione e ci facevano salire per respirare un po’ d’aria ogni tanto e per fare i bisogni per poi farci ritornare nella stiva». Poi, l’inferno. «Circa quattro ore prima dell’urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che entro tre ore saremmo arrivati a destinazione. Con un cellulare ci ha fatto vedere la mappa per tranquillizzarci dell’imminente arrivo anche perché la gente iniziava ad agitarsi vista la traversata che durava da ormai quattro giorni. Lui si è ripresentato circa un’ora prima dello schianto, dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere perché eravamo quasi arrivati. Ma all’improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c’era tanto fumo nella stiva e puzza di olio bruciato. Ho sentito dire da altri migranti che un turco dell’equipaggio (quello di corporatura robusta) ha spinto al massimo la leva dell’acceleratore, rompendola. A seguito di ciò il motore è rimasto accelerato e nessuno sapeva come spegnerlo, anche perché iniziava a diffondersi il panico tra tutti. La gente nella stiva iniziava a soffocare ed a salire nella coperta. Io ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote ed a salire in coperta, dopodiché la barca si è spezzata e l’acqua ha iniziato ad entrare dappertutto. Quando sono salito in coperta, senza più riscendere nella stiva, sotto c’erano circa 120 persone tra donne e bambini».
E la fuga degli scafisti. «Io non ho visto personalmente cosa hanno fatto ma mi hanno detto altri migranti che il componente siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati». Ma la cosa tragica è che quando il barcone è affondato, «io, col nipote più grande e quello piccolino ci siamo tuffati in mare, siamo rimasti in mare per tre ore». Un dato che sembra coincidere con l’annotazione della guardia costiera che riferisce che soltanto alle 6.50 la motovedetta Cp 321 della guardia costiera di Crotone recupera un bambino deceduto e due uomini in ipotermia. L’allarme, invece, è scattato poco dopo le 4, ed è presumibile che il barcone si fosse già spezzato in due. Non erano uscite, le motovedette, perché la Direzione marittima di Reggio Calabria comunicava, in risposta ai finanzieri della Sezione operativa navale di Crotone che rientravano per le cattive condizioni meteo, di non avere «certezza della presenza di migranti a bordo e in considerazione che l’imbarcazione stava navigando regolarmente», si legge, invece, nella relazione delle Fiamme gialle. Eppure quel tratto lo battono da trent’anni i trafficanti di esseri umani con barconi ricolmi fino all’inverosimile.
Un altro pezzo della storia la racconta il fratello del bambino, ma sarà sentito successivamente. È lui che ha spiegato agli inquirenti che «l’imbarcazione andava molto veloce, ad una velocità mai adottata prima, i migranti erano terrorizzati, improvvisamente il natante ha urtato contro qualcosa e ha iniziato ad imbarcare acqua, ho preso mio fratello di sei anni e sono salito sopra coperta, il mare era agitato, io, mio zio e mio fratello ci siamo tuffati, mio fratello è morto perché l’acqua era freddissima, siamo stati in acqua tre ore ma mio fratello è morto già alla prima, vedevo le forze dell’ordine ma non riuscivano a vederci, sono riuscito a portare mio fratello in spiaggia ma era già deceduto». E questo pezzo del racconto forse va messo in rapporto con i ritardi dei soccorsi anche a terra. Ma ieri è stato sentito anche un altro pakistano che ha confermato anche lui quanto già riferito agli inquirenti. Un racconto che coincide con altri, dai 7000 euro versati per la traversata al vagare tra boschi e montagne fino al viaggio in camion per Izmir alla spiaggia da dove si parte con una barca di colore bianco, che poi ha problemi al motore e viene sostituita. Agli scafisti proponevano di chiedere aiuto a qualche peschereccio, ma uno di loro mostrava un tablet sostenendo che sarebbero arrivati a breve.
Dopo cinque giorni di traversata, finalmente giungono in prossimità della costa quando si sente un forte rumore, e da una falla lo scafo imbarca acqua. «Il livello dell’acqua sotto coperta è salito molto rapidamente generando caos a bordo, mi sono ritrovato in mare e mi sono aggrappato a un pezzo di legno, la corrente mi ha spinto a riva». Intanto, «i sei membri dell’equipaggio erano intenti a contattare telefonicamente qualcuno». Chissà se li aspettava qualcuno a terra. Dubbi sul ruolo di scafista del minorenne indagato li ha fatti emergere l’avvocato Perri, poiché uno dei testi pakistani ha sostenuto di aver pagato insieme a lui il taxi quando tornarono indietro, dopo una settimana di cammino, perché non trovarono l’imbarcazione in spiaggia. Dubbi, però, anche sui mancati soccorsi in mare, come quelli fatti emergere da una domanda dell’avvocato Verri a un altro pakistano. «Gli scafisti mi hanno rassicurato che chi ha affrontato il viaggio prima di me sapeva che, giunti in acque italiane, saremmo stati salvati. Sapevo che l’Italia protegge. Quando sono arrivato sulla spiaggia c’erano solo un pescatore e due carabinieri». Il resto è cronaca.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA