Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, autori del libro
7 minuti per la letturaHANNO scelto l’immagine mitologica del grifone, creatura ibrida e feroce col corpo di leone e la testa d’aquila, per rappresentare la metamorfosi della ‘ndrangheta. Una ferocia che pensa, perché la testa, appunto, è d’aquila, tanto che nelle “Storie” di Erodoto il grifone, in virtù della sua doppia natura, assurge a custode dei tesori. Quei tesori oggi sono transazioni finanziarie che avvengono online e offline.
Nel loro nuovo libro “Il grifone. Come la tecnologia sta cambiando il volto della ‘ndrangheta”, edito da Mondadori, il neo procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, e lo storico delle mafie Antonio Nicaso esaminano con rigore scientifico e chiarezza comunicativa le modalità di infiltrazione dei clan in quella svolta epocale in cui il confine tra mondo reale e virtuale si assottiglia. Una svolta che ha avuto un impatto sui mafiosi che, come emerso dalle inchieste degli ultimi anni, pur rimanendo fedeli a sé stessi si affacciano su scenari criminali sempre più sofisticati, ovviamente tramite fiduciari e intermediari, broker e hacker, ingegneri informatici e direttori di banca compiacenti, competenze “esterne” di professionisti che pur non essendo formalmente affiliati tramite rituali ancestrali forniscono un apporto ormai fondamentale per le organizzazioni criminali.
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Una vera e propria metamorfosi della ‘ndrangheta. Pensiamo, ad esempio, a quel sottobosco di piattaforme finanziarie gestite, su scala globale, da un numero esiguo di trader, alle quali si può accedere soltanto con considerevoli disponibilità economiche. Piattaforme clandestine che consentono di generare percentuali di guadagno fino all’80 per cento del valore investito. È là dentro che finiscono gli investimenti finanziari della ‘ndrangheta, che può sfruttare enormi capitali con i quali viene così prodotta ulteriore ricchezza. In questa metamorfosi, a fungere da cuscinetto tra i gestori delle piattaforme e gli investitori, tra i quali la ‘ndrangheta ha senz’altro un ruolo privilegiato per le ingenti liquidità di cui dispone, ci sono una serie di facilitatori che vantano amicizie e interessi nel campo finanziario e attendono la positiva riuscita delle operazioni per incassare commissioni che si aggirano intorno a svariati milioni di euro.
Il mondo del trading clandestino e delle false garanzie bancarie viene messo a nudo dall’inchiesta che nei mesi scorsi ha portato all’operazione Glicine Acheronte, con cui la Dda di Catanzaro ha inferto un duro colpo alla cosca stanziata nel quartiere Papanice di Crotone, dove un boss come Domenico Megna, che qualcuno aveva osato chiamare “pecoraro” venendo ucciso per l’affronto, riusciva a muovere fiumi di denaro avendo in mano hacker tedeschi e broker in possesso perfino di un vademecum sui rendimenti delle operazioni.
Sulla metamorfosi e sulla finanza clandestina molto hanno detto alcuni collaboratori di giustizia gravitanti attorno alla cosca di ‘ndrangheta di Cutro il cui capo, Nicolino Grande Aracri, già dieci anni fa sfoggiava competenze tecniche a colloquio con i suoi uomini, nella ormai famigerata tavernetta monitorata dalle Dda di mezza Italia. Alcuni pentiti sono stati risentiti nel corso delle indagini coordinate dal pm Antimafia Domenico Guarascio e condotte dai carabinieri del Ros. Ed è venuto fuori, tra l’altro, che la cosca cutrese conferiva nelle piattaforme anche titoli di Stato storici, come i Black eagles statunitensi, risalenti ai primi anni del Novecento, grazie ad appoggi di cui la cosca godeva da parte di alti gerarchi militari sudamericani. Pensiamo, anche, alla capacità di estrarre Bitcoin con l’uso di potenti dispositivi di calcolo addirittura in zone depresse come il Crotonese, la Locride o la Piana di Gioia Tauro: «I rilevamenti degli hotspot (Helium, simili a un normale router WiFi ma a più ampio raggio) nelle tre zone indicate sono inequivocabili: qualcuno sta svolgendo l’attività di mining», scrivono Gratteri e Nicaso. È una notizia che ci danno gli autori, secondo loro non sorprendente ma non scontata.
Non meno sorprendente del fatto che già il veneto Alberto Toffanin, oggi collaboratore di giustizia ma in passato uomo “riservato” del clan Arena di Isola Capo Rizzuto in Veneto, dove il processo “Isola scaligera” ha accertato l’esistenza di un “locale” di ‘ndrangheta, aveva ricevuto l’incarico di acquistare un computer Butterfly, particolarmente sofisticato per l’epoca, anche se poi non se ne fece nulla, proprio al fine di estrarre criptovaluta. «Nessuno sa cosa sia avvenuto in seguito. Se avessero perseverato, oggi avrebbero potuto vantare un notevole tesoretto, con un valore di 787 volte in più rispetto alla quotazione iniziale», scrivono sempre gli Autori. Vi sono Paesi come il Paraguay, l’unico al mondo che dipende soltanto da fonti energetiche rinnovabili che possono essere utilizzate per mitigare i costi energetici per l’estrazione di Bitcoin, in cui un magistrato come Marcelo Pecci Albertini è stato ucciso forse perché indagava sugli affari del Primeiro Comando da Capital (Pcc), che da anni investe in criptovalute.
I Bitcoin fanno gola anche ai cartelli messicani e in Europa, dicono i rapporti di Europol, l’interesse delle organizzazioni criminali per le transazioni di criptovalute è crescente. Gli indizi della metamorfosi, come spesso accade, portano in Calabria, dove un broker legato al clan di ‘ndrangheta dei Bonavota di Sant’Onofrio cercava di acquisire il controllo di una banca ungherese per investire in criptovalute i soldi della droga. Più che al contante, insomma, l’evoluzione delle attività criminali è sempre più orientata verso le criptovalute, la moneta digitale, le banche virtuali. Il grifone ha allungato i suoi artigli anche su metaverso e intelligenza artificiale, e gli autori si inseriscono nel dibattito su opportunità e rischi di un’arma a doppio taglio condividendo l’allarme lanciato dal Sistema di Informazione per la sicurezza della Repubblica che nella sua relazione annuale del 2022 traccia le sfide che l’intelligence è chiamata ad affrontare a cominciare dall’”uso improprio” delle “tecnologie di frontiera”. Intanto, nei meandri del darkweb i clan si sono già insinuati, poiché il luogo più oscuro di Internet è già stato esplorato ed è diventato un punto di incontro per vendere droga e armi, grazie anche alle legislazioni opache di alcuni Paesi in cui hanno sede i server dei “bazar dell’illecito”. Paesi spesso ostili alla collaborazione con gli inquirenti occidentali. Insomma, la parola d’ordine è condivisione.
Anche per le organizzazioni criminali il digitale è il canale ideale di comunicazione. Gli autori citano ampiamente il primo rapporto su “Le mafie nell’era digitale”, progetto di ricerca promosso dalla Fondazione Magna Grecia e curato dal professor Marcello Ravveduto, docente di Digital public history all’Università di Salerno e Modena-Reggio Emilia, uno studio che documenta come le mafie siano divenute sempre più ibride, operando online e offline. Uno studio che cerca di comprendere, anche, come si muove la criminalità sui social network. Non a caso un capitolo del “Grifone” è dedicato al “cyberbanging”, ovvero l’esaltazione dei comportamenti e del tenore di vita di chi si è arricchito con i proventi delle attività criminali. “Cattivi maestri” in tal senso sono stati soprattutto gruppi camorristi, a cominciare dal fenomeno dei baby boss, con particolare riferimento al capo della paranza dei bambini che viene ucciso e poi idealizzato con i murales. Meglio, però, se la condivisione è criptata. Dalle intercettazioni in cui i mafiosi si congedavano durante i summit per proseguire su Skype le loro operazioni illecite, il passo è stato breve ed oggi è sempre più diffuso l’impiego di criptotelefoni da parte di esponenti di sodalizi di criminalità organizzata di matrice campana, calabrese, siciliana ed anche straniera, in particolare albanese. Pensiamo, per esempio, allo scenario aperto dalla decriptazione massiva di milioni di comunicazioni a favore delle autorità giudiziarie europee e quindi di Eurojust, che ha offerto uno spaccato di conoscenze senza precedenti sul modus operandi delle organizzazioni criminali. Soltanto per la piattaforma SkyEcc sono state decriptate 500 milioni di chat.
A “bucare” le piattaforme criptate sono state per prime le polizie di Francia, Olanda e Regno Unito. Gli Autori non lo scrivono, ma forse c’è da riflettere sui ritardi negli investimenti nell’investigazione scientifica proprio da parte dell’Italia, che pure rappresenta un modello nell’attacco globale alla ‘ndrangheta.
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