COSENZA – I Dedalus sono finalisti alle Targhe Tenco, nella categoria del Migliore disco in dialetto, con “Ammâšcâ”, il lavoro pubblicato nei mesi scorsi per le edizioni Città del sole. Il Collettivo Dedalus ha fatto propria una ricerca linguistica del glottologo John Trumper, che ha studiato la lingua nascosta e estinta dei calderai di Dipignano, i “quadarari”. Ricerca poi diventata poesia grazie al poeta Franco Araniti, autore di liriche nel gergo metallurgico “ammâšcânte”. Quindi arrivano loro: Mario Artese (voce e chitarra battente), Checco Pallone (chitarre e percussioni), Giuseppe Pallone (mandola), Franco Caccuri (basso), Fabio Pepe (flauto traverso), Paola Dattis (voce), Sergio Artese (voce recitante). Per la seconda volta un album dei Dedalus arriva nella cinquina finalista del Tenco. Era già successo nel 2010 col precedente “Mari”. Chissà che questa non sia la volta buona. Saputa la notizia e in attesa del verdetto finale, che arriverà a giorni, abbiamo incontrato Mario Artese con Pallone padre e figlio (Giuseppe e Checcho), per qualche impressione a caldo.
Che effetto vi fa essere di nuovo in finale?
«È una ribalta di prestigio. Se duecento giornalisti ti considerano così meritevole, è un riconoscimento importante al nostro lavoro».
Questo disco è stato impegnativo.
«È il lavoro più significativo e maturo nel quale ci siamo cimentati. Le composizioni hanno comportato impegno. La realtà nella quale ci siamo immersi era lontana, riguardava il mondo degli antichi calderai che non c’è più, e noi quasi abbiamo cercato di pensare come loro. Difficile ma molto stimolante».
Che cosa ha comportato cimentarsi con una lingua estinta?
«Le nostre intenzioni sono state spesso stravolte dalle prove. Gli accenti e le pronunce richiedevano una musicalità e un ritmo che non avevamo previsto, abbiamo dovuto modificare le melodie, era la lingua che ce lo chiedeva. Le prime volte che cantavamo le canzoni con questa lingua sconosciuta e stranissima… ci stendevamo a terra dalle risate».
Come siete arrivati a questo progetto così particolare?
«È una gestazione che viene da lontano, più di dieci anni fa, era ancora vivo il nostro paroliere Enzo Costabile, morto nel 2003. Leggemmo le poesie di Franco Araniti in “ammâšcânte”, ne restammo affascinati. Divenne un virus che lentamente ha fatto effetto. Un paio di anni fa riprendemmo in mano l’idea, Araniti ha scritto altre liriche appositamente».
Mi spiegate come la musicalità delle parole “ammâšcânti” ha condizionato le musiche?
«In tanti modi: un pezzo è un valzer manouche alla Django Reinhardt, ha un andamento inciampante come il testo, che parla di un ubriaco; il pezzo “Ammâšcâ” è fatto di riff e frasi sovrapposte perché descrive il gergo cifrato dei “quadarari”, che non volevano farsi capire; un altro è una ninna nanna dedicata ai “ciottelli”, i bambini. E così via».
Ci assicurate che questa non è un’operazione di recupero nostalgico?
«Non lo è nel modo più assoluto. C’è il gusto di confrontarci artisticamente con lingue e realtà lontane. C’è un coinvolgimento anche sentimentale, ma prevale il piacere dello studio e della ricerca, l’orgoglio di un lavoro ben fatto».
Che farete in caso di vittoria?
«Speriamo di poter ancora suonare molto. Tutt’al più ci facciamo una bella bevuta di “grasìa” (vino in “ammâšcânte”)!»
Gli ostacoli per la vittoria finale sono consistenti: gli altri finalisti sono Cesare Basile, il Canzoniere Grecanico-Salentino, Giulia Daici, Gatti Mézzi, Tonino Zurlo. Ma i Dedalus se la giocheranno alla pari. In bocca al lupo.