L'ospedale Pugliese di Catanzaro
3 minuti per la letturaCATANZARO – «Mio padre è stato dimesso dopo ventidue giorni di ricovero, ed è stato mandato a casa con una diagnosi generale, ma senza il risultato della biopsia»: il racconto è di una donna che ha scelto di svelare il calvario di suo padre, paziente oncologico ricoverato dagli inizi di maggio nel reparto di Chirurgia dell’ospedale Pugliese di Catanzaro. La diagnosi è drammatica, un cancro, ma la gestione del caso, stando al racconto, è come un calvario: una lunga marcia in salita in una sanità che fatica ad essere “umana” per un paziente oncologico.
L’uomo ha 75 anni, la sua famiglia dopo questa esperienza ha chiesto un consulto fuori dai confini regionali. Magari all’Istituto Europeo Oncologico si può valutare il da farsi. Certamente una scelta consapevole. Ma, in parte, anche una reazione a quanto visto in quelle settimane di degenza ospedaliera in Calabria. «Una cosa su tutte – ci dice la figlia del paziente al telefono – è che mio padre non poteva mangiare. Eppure, continuavano a portargli il cibo. Mio padre per circa quindici giorni è stato alimentato artificialmente, in condizioni molto critiche». Nel frattempo, andava in scena quello che in tanti, purtroppo, hanno visto tra le corsie degli ospedali calabresi. Rimpallo di responsabilità, mancata comunicazione tra reparti, gestione infermieristica non proprio “gentile”.
«Mio padre è sottoposto a terapia del dolore – dice – un giorno ha dovuto attendere un’ora. Le sue richieste d’aiuto erano praticamente ignorate. Ad un certo punto si è sentito dire anche “dai, che non è niente”. Soltanto dopo venti giorni è stato visitato da un oncologo». Il paradosso è che un paziente così debilitato, c’è dovuto arrivare da solo in un altro reparto. «Siamo dovuti andare noi dallo specialista, trasportandolo in sedia a rotelle dal reparto di Chirurgia». All’inizio del mese l’uomo è entrato in ospedale restando per qualche giorno “parcheggiato” nel corridoio in attesa di un posto letto. L’orario visite veniva mal rispettato grazie alla discrezionalità del personale infermieristico. «Ad un certo punto le visite sono state completamente chiuse, hanno messo una guardia alla porta. L’ordine era di fare entrare un familiare alla volta ma non sempre e non da tutti la cosa era rispettata. Oltretutto spesso l’orario delle visite veniva rispettato». All’interno del reparto va in scena il dilemma sulla diagnosi. Bisogna effettuare una biopsia e valutare con certezza il da farsi. «Inizialmente ci hanno detto che in ospedale questo tipo di esami non li avrebbero fatti. Ci avevano prospettato due opzioni: o trasferirsi a Messina o andare a Germaneto».
L’ultima è sorprendente: in teoria i due ospedali oggi fanno parte di un’azienda ospedaliera unica, non si comprende la necessità di spostare un paziente da una struttura ad un’altra. Infine, la rivelazione. «Dopo quindici giorni abbiamo scoperto, tramite alcune consultazioni con conoscenti, che la biopsia poteva farsi direttamente al Pugliese». Poi le dimissioni in attesa di un risultato certo che ancora non c’è. Ci vorranno almeno dieci giorni per ottenerlo, tempi tecnici necessari. La famiglia intanto cerca nuovi consulti di fronte un sistema paradossalmente avvitato su sé stesso, dove un ruolo chiave dovrebbero svolgerlo anche le associazioni. Spazi necessari per sostenere e indirizzare i pazienti e i caregiver.
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