L'ex giudice Marco Petrini
3 minuti per la letturaCOSENZA – Da quasi due anni è uno spauracchio che aleggia su tutti i tribunali e gli uffici giudiziari della regione, ma la loggia massonica coperta di cui avrebbero fatto parte magistrati corrotti, avvocati corruttori e professionisti senza scrupoli con ottime probabilità è solo frutto della fantasia di Marco Petrini.
Più semplicemente, non esiste. Almeno non quella descritta dall’ex giudice all’atto del suo pentimento, circostanza che a febbraio del 2020 porta all’apertura di un’inchiesta a carico di undici toghe calabresi sospettate di associazione a delinquere, corruzione con finalità mafiose e violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. All’epoca sembra il preludio a un terremoto politico e giudiziario senza precedenti, e invece nei mesi scorsi la Procura di Salerno, competente in tema di accertamenti sui magistrati calabresi, ha chiesto l’archiviazione di quell’indagine per la più che probabile infondatezza della notizia di reato.
Colpa di Petrini, che oltre a ritrattare quella e altre confessioni, nel caso di specie è stato smentito anche dai risultati delle investigazioni. A un mese dal suo arresto per il mercimonio di sentenze di cui è reo confesso, infatti, l’ex presidente di sezione della Corte d’appello di Catanzaro aggiunge anche rivelazioni scottanti sulla sua affiliazione a una confraternita esclusiva di cui avrebbero fatto parte altri suoi colleghi. Finalità del gruppo: favorire i clienti degli avvocati-fratelli.
Spiega che la sua adesione risale a metà 2018 e che a introdurlo in quel circolo esclusivo è Emilio Santoro, il faccendiere ex funzionario Asp coinvolto come lui nell’inchiesta “Genesi”. «C’erano in tutto una decina di persone che prestarono il loro assenso al mio ingresso. Mi fu rappresentato il dovere di fratellanza, consistito nell’assecondare le richieste degli altri fratelli e mantenere il segreto su quanto accadeva all’interno della loggia». Il cerimoniere, manco a dirlo, era il solito Giancarlo Pittelli, tant’è che il rito d’iniziazione si sarebbe celebrato nel suo studio catanzarese. «Fu fatto accenno alla gerarchia presente nella confraternita – aggiunge Petrini – e certamente il grado più alto lo aveva lui, così come seppi da Santoro». A quel punto, il novizio avrebbe letto ad alta voce il giuramento di rito e sempre Pittelli «mi ammise formalmente dichiarandomi fratello».
A quella riunione ne sarebbe seguita un’altra fra gennaio e febbraio del 2019 alla quale Petrini si reca «accompagnato ancora da Santoro» e nei suoi ricordi è lo stesso amico-faccendiere a informarlo, nei mesi successivi, della convocazione di ulteriori incontri ai quali però l’ex giudice non prende parte. Un racconto articolato, dunque, seppur orfano di qualche dettaglio che, date le circostanze, avrebbe dovuto esserci. La loggia in questione, per dirne una, aveva un nome, ma Petrini non la ricorda. E anche il range di date indicate – il suo battesimo da massone deviato si sarebbe celebrato fra maggio e agosto del 2018 – appare un po’ troppo ampio considerato che si parla di fatti risalenti solo a un paio d’anni prima. Bene, anzi male. Perché tempo pochi mesi, dicevamo, e ad aprile del 2020 Petrini fa dietrofont. E alla sua ritrattazione si aggiunge anche la verità discordante di Santoro che, intanto, ha scelto di intraprendere anche lui la via della collaborazione con la giustizia.
A colloquio con i pm salernitani, Santoro non nasconde la propria appartenenza alla massoneria con «la carica di Gran maestro del terzo grado», ma nega che analogo percorso iniziatico sia stato intrapreso dal giudice suo ex complice in accordi corruttivi. «Petrini – precisa – non fa parte di associazioni massoniche. Ne abbiamo parlato più volte perché mi faceva parecchie domande, apparendo incuriosito dall’argomento», ma quando gli chiede se sia interessato o meno a un’affiliazione, il suo interlocutore in toga «si limitò a fare una risata, quindi non disse né sì né no». A Santoro, inoltre, non risulta l’esistenza di logge coperte a Catanzaro, a differenza di Cosenza e Vibo Valentia, ma in entrambi i casi non sa «se ne facciano parte anche magistrati».
Un buco nell’acqua insomma, anche se la delicatezza del tema ha suggerito agli inquirenti campani di non lasciare nulla di intentato e di andare alla ricerca di altri riscontri in grado di confermare le dichiarazioni iniziali dell’ondivago Petrini. Un surplus d’indagini che non ha sortito l’effetto sperato.
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