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SE ne va a quarant’anni dalla scomparsa di un altro grande, da Carlo Levi, dal cui romanzo aveva realizzato uno dei suoi capolavori del cinema. Anche allora, come mi era capitato con Pier Paolo Pasolini, mi capitò di trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Quando lo incontrai la prima volta, Franco Rosi mi sembrò molto alto, un crociato dell’era moderna, aveva i lineamenti marcati, il suo volto arcigno, sotto una coppola che gli conferiva un’aria operaia, sembrava intagliato in un legno d’ulivo, gli occhi aveva incavati in orbite profonde e inaccessibili. Fiero nel portamento, aveva l’aria di chi fosse perennemente corrucciato. Come un orso. Irsute aveva le sopracciglia. Amavo i suoi film, avevo visto tanto tempo prima “Mani sulla città”, lo avevo giudicato un film comunista. Nel 1978 Rosi era approdato a Matera per girare “Cristo si è fermato a Eboli”. Ambientare il film nella Lucania degli Trenta rappresentava per Rosi un problema complicato. Quella Lucania non c’era più, tutto appariva moderno, sul territorio erano appariscenti i segni delle trasformazioni. Aliano degli anni del confino non esisteva più, ma anche negli altri centri abitati la vecchia fisionomia era cambiata sotto i colpi della modernità. Anche le campagne si erano modernizzate e meccanizzate. Le prime fabbriche petrolchimiche arrivate nella Valle del Basento, avevano assunto alcune migliaia di operai. Insomma circolava più moneta, anche se non mancavano difficoltà alla crescita economica e allo sviluppo sociale. Nel modo di vestire c’era stata una rivoluzione, le vendite a rate avevano portato grandi mutamenti anche nell’abbigliamento. Le facce denutrite, una volta onnipresenti, cominciavano a sparire. La gente mangiava di più e meglio. A me era stato chiesto di collaborare alla scenografia del film. E in questo ruolo, mi capitava molto spesso, quasi giornalmente di stare a contatto col regista. Rosi interveniva sul set per controllare che tutto fosse sistemato secondo i bisogni della scena da girare.
Ero impressionato dal modo sanguigno con cui Franco Rosi dirigeva il film. Era sempre dentro la scena. Notavo in lui la soddisfazione per il lavoro che compivamo con la scenografia. Spesso si faceva coinvolgere emotivamente dalla scena. Una volta l’ho visto ballare freneticamente la tarantella insieme alle comparse. Avevamo montato il set in una specie di cavò sotterraneo scavato nei pressi della masseria De Laurentis sulla murgia di Santeramo. Era la cantina dove, fra enormi botti e tinozze, si recavano i cafoni a bere vino e ballare tarantelle e pizzica-pizziche al suono di zufoli e cupi cupi. Franco Rosi non resistette alla tentazione e si buttò fra le comparse a danzare vorticosamente. Con la sua mole massiccia, Rosi dominava sulla massa dei cafoni e delle contadine che al suo confronto sembravano pigmei. Ma tutti erano presi dalla parte, il vino e l’euforia avevano fatto la loro parte. C’è una scena però che Rosi non ha potuto girare. C’era bisogno di un mago, un masciaro come dicono da queste parti, di quelli che fanno e tolgono fatture. Ad Accettura c’era uno di questi maghi. Ne avevano parlato i giornali e le televisioni qualche tempo prima. Era stato coinvolto in un processo penale accusato di aver sedotto e ingravidato con inganno due sorelle che si erano rivolte a lui per una pratica di affatturazione. Poteva essere lui il mago che Rosi cercava per il suo film. Un pomeriggio raggiungemmo Accettura, in macchina eravamo in cinque, con Rosi c’eravamo io e Gian Maria Volontè, lo scenografo Andrea Crisanti oltre l’autista. Lungo il viaggio Rosi teorizzò molto sulla scena che intendeva girare col mago, richiamandosi alle lezioni di Ernesto De Martino che era venuto proprio in Lucania a esplorare, con le sue indagini, il mondo della magia e della superstizione. Il mago di Accettura ci ricevette nella sua casa, ma non accettò la proposta di Rosi. E non cedette neppure alla lusinga di un congruo compenso monetario. Era evidente che temeva di esporsi nuovamente alla pubblica attenzione che, durante il processo, non fu tenera nei suoi riguardi. Tornammo da Accettura delusi e scontenti dell’insuccesso. Rosi aveva fatto affidamento su di me che con Accettura avevo avuto in precedenza lunga e fortunata frequentazione politica. Anch’io, per la verità, speravo di influenzare il mago. Durante il viaggio di ritorno Rosi si mostrò freddo verso di me, a stento mi rivolgeva la parola.
Con Franco Rosi vissi a stretto contatto nei giorni in cui operammo a Craco, sulle cui rovine ricostruimmo la Gagliano degli anni Trenta. Qui, ai margini della frana, ricostruii la casa della vedova in cui Carlo Levi andò ad abitare nei primi giorni del suo confino ad Aliano. La frana aveva risparmiato un pugno di case e in una di queste ricomposi gli ambienti contadini di quell’epoca. Operai in una casa invasa da rifiuti d’ogni genere. Vedevo fra quelle carte il disfacimento di un vecchio mondo che aveva rinunziato a conservare le proprie memorie. Alla fine, con soddisfazione di Rosi, avevo ricomposto un interno di grande impatto cinematografico. Quando ne parlo con gli amici io amo dire orgogliosamente: feci quegli ambienti con le mie mani. Un’altra location di cui andavo orgoglioso riguarda la masseria delle sorelle pisticcesi. La scelta cadde sulle Monacelle, una masseria storica alla periferia del borgo rurale della Martella. Al centro di un vasto ambiente, una volta utilizzato come dormitorio dei salariati, c’era un focolare sormontato da una cappa sorretta da quattro colonne. Era del tutto simile ai megaron dell’antica Grecia. In quell’ambiente solenne e misterioso venne girata la scena della morte del contadino pianto dalle due sorelle pisticcesi: una scena di una drammaticità incontenibile.
Il 16 marzo eravamo a Gravina per un sopralluogo nella stazione ferroviaria. Con Crisanti, lo scenografo, avevamo scelto quella stazione per ambientare l’arrivo di Carlo Levi a Eboli. Eravamo a mezza mattinata. Sotto la pensilina della stazione, Franco Rosi stava dando indicazioni allo staff tecnico come invecchiare la stazione per riportarla agli anni Trenta. Lungo i binari vedemmo avvicinarsi una persona, era sudato e aveva il volto solcato da lacrime struggenti. Era il capostazione, veniva a darci la notizia che era stato rapito Aldo Moro. Immediata fu la determinazione di Rosi che decise di sospendere il sopralluogo. Non potevamo, disse il regista, continuare a lavorare mentre si consumava una immane tragedia. Raggiungemmo le macchine parcheggiate sul piazzale e dalle autoradio ci mettemmo a seguire la cronaca in diretta del drammatico evento. E lì potemmo apprendere come le brigate rosse avessero teso un agguato, rapito lo statista pugliese e massacrato la scorta. Da oggi, fu il commento di Rosi, l’Italia torna indietro di trent’anni. Ed io aggiunsi che mi sentivo offeso che le brigate utilizzassero la parola rosso per connotarsi. Per me il rosso era un colore sacro, indossavo sempre qualcosa di rosso, un gilé, una maglia, una cravatta, oppure un foulard di seta che mi annodavo al collo. Restammo sul piazzale della stazione di Gravina almeno per altre due ore prima di riprendere, muti e addolorati, la via del ritorno.
Dovevo rivedere Franco Rosi un paio di anni dopo, quando tornò a Matera per girare il suo nuovo film, “Tre fratelli”. Rivedevo gran parte del personale che avevo conosciuto sul set del Cristo. Mancava però Gian Maria Volontè. Gli attori del nuovo film dovevano essere Michele Placido, Vittorio Mezzogiorno e Philippe Noiret. Non presi impegni di sorta in questo film, mi limitai a dare una mano d’aiuto allo scenografo Andrea Crisanti nella individuazione delle location esterne. Anche in questa occasione esplorammo in lungo e in largo il territorio alla ricerca di una masseria che potesse andare bene. La trovammo sulle Murge, a poca distanza del Pulo di Altamura. Era la masseria Viti, bellissima e in ottime condizioni di conservazione. Ho rivisto Rosi al lavoro in quella masseria per alcuni giorni, poi abbandonai. Col regista mantenni di tanto in tanto solo contatti telefonici, che però subirono una lunga interruzione durante la mia malattia.
Quando lo risentii per telefono qualche tempo dopo, mi informò della tragedia che lo aveva colpito: la moglie era rimasta vittima di una grave sciagura domestica. Era affranto. In quel frangente intanto avevo progettato di promuovere una qualche iniziativa per conferire a Rosi la cittadinanza onoraria. Gli comunicai questo mio progetto, Rosi mi rispose per lettera che non era il caso, diceva di non essere in grado di viaggiare. Io insistetti con una seconda lettera, Rosi fu perentorio nella risposta. Fui costretto a rinunciare. Poi andò a finire che accettò di venire a Matera per farsi conferire la cittadinanza onoraria. Ma io a quella cerimonia fui assente. Accadde nel mese di settembre 2013. Ai margini di una piazza stracolma, io ho solo intravisto Franco Rosi seduto in una macchina, quasi blindato come fosse un alieno sbarcato da una nave spaziale in un centro della Nasa. Eppure ero stato invitato ad essere presente e a testimoniare una pagina della storia di quel regista. Era noto il fatto che io fossi stato protagonista non secondario durante la lavorazione del film “Cristo si è fermato a Eboli”. A testimoniare la sua presenza in questa città restano comunque le pagine nelle quali ho raccontato una bell’amicizia e un’autentica lezione di cultura nel libro “Da Carlo Levi a Franco Rosi” nelle edizioni Calice.
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