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Per il modo in cui si è arrivati alle primarie per la scelta del candidato presidente alle elezioni regionali di novembre, è del tutto evidente che il Pd ha preferito anteporre alla costruzione della coalizione capace di dar vita a un centrosinistra radicalmente rinnovato e   di un programma di governo che fosse in netta discontinuità con gli ultimi dieci anni la resa dei conti all’interno dei suoi gruppi dirigenti.

Alla fine dei conti, quindi, bene hanno fatto le forze di sinistra a sottrarsi da una prova che è tutta interna al Pd (non me ne vogliano Benedetto e Somma) e che sarebbe solo servita a sancire la loro subalternità alle dinamiche e alle faide che attraversano il principale partito della Regione. E bene farebbero nei pochi giorni che ci separano dalle primarie del Pd a non manifestare, sia pure in forma indiretta, preferenze per l’uno o l’altro dei candidati, pena il rischio che quella condizione di subalternità sinora evitata non si riproponga in forme ancor meno trasparenti.

Il problema, dunque, della ricostruzione di una coalizione di centrosinistra resta del tutto irrisolto e rinviato interamente a dopo le primarie. E esso potrà trovare una qualche soluzione se i due principali contendenti, Lacorazza e Pittella, sapranno dimostrare di essere in grado di emanciparsi, l’uno dal legame con il complesso delle classi dirigenti che si sono succedute nel corso degli ultimi venti anni, l’altro dall’assetto familistico e clientelare su cui ha costruito le sue fortune politiche.

La scelta di Giampaolo D’Andrea avrebbe potuto costituire quella soluzione di continuità con le pratiche di governo e le relazioni politiche degli ultimi dieci anni, perché – sebbene politico di lungo corso – egli da tempo risulta estraneo alle logiche di potere, e ai conflitti che esse hanno generato, prevalsi nella vita politica regionale. Tocca ora a chi vincerà il confronto interno al Pd dimostrare quanto sia in grado di dare un taglio netto con il passato, a cominciare dalle pratiche trasformistiche e consociative su cui si sono formate la rappresentanza e le maggioranze negli ultimi anni. Il problema dunque non è tanto, nella costruzione del nuovo centrosinistra, di porre veti a forze che stanno a destra del Pd, quanto piuttosto interrogarsi sulla loro effettiva natura politica e quanto esse stesse, dal loro versante, siano protagoniste di un effettivo rinnovamento.

Nelle prossime settimane alla sinistra lucana spetta un ruolo delicato e importante, che è bene che svolga meno in sordina di quanto abbia fatto sinora. Si tratta di rivendicare con maggiore forza il fatto che non è stato un caso che, per due legislature consecutive, i suoi rappresentanti in Consiglio regionale (Emilia Simonetti e Giannino Romaniello) siano risultati del tutto estranei a quelle pratiche disinvolte nell’uso del danaro pubblico che hanno condotto allo scioglimento anticipato della Regione. E da ciò bisognerebbe trarre le opportune conseguenze politiche e elettorali. Come bisognerebbe subito mettere sul tappeto una serie di indicazioni politiche e programmatiche che aiutino il complesso delle forze del centrosinistra a aprire un nuovo capitolo riformatore, in una regione che è ormai in pezzi, dal punto di vista economico e sociale, ma anche da quello dello spirito pubblico e del senso civico.

E nel Pd nessuno si faccia illusioni. Se non c’è una vera svolta, il tornante delle elezioni di novembre potrà anche essere superato per il rotto della cuffia. Ma la tendenza rovinosa che ha portato alle elezioni anticipate non verrà arginata. E la Basilicata, che per tanti aspetti è tornata a essere l’anello debole della condizione dell’Italia meridionale, potrebbe essere irreversibilmente travolta da un processo inarrestabile di disgregazione politica e di esasperazione sociale.

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