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“È rimasto uno straccio a penzolare al filo di ferro dove mia madre appendeva i panni lavati. Nessuno se n’è accorto in questi anni. Dondola nel fumo dei camini che si accendono in inverno o con le rondini che in primavera accarezzano i tetti. Dondola anche ora, nonostante la pioggia. Forse qualcuno l’avrà lasciato in una delle rare occasioni in cui la casa è stata aperta, ma potrebbe anche risalire a quando ce ne siamo andati. Una dimenticanza, un errore di mia madre: prendi tutto, prendi tutto, poi alla fine scordi sempre qualcosa. Da allora non torno mai volentieri nel luogo dove sono nato: è come strappare un foglio di carta e cercare un rattoppo”.
Questo l’incipit de “L’albero di stanze” (Marsilio), ultimo romanzo di Giuseppe Lupo. Una originale e coinvolgente storia familiare pensata dallo scrittore e docente universitario di Atella (Premio Campiello–Selezione giuria dei letterati nel 2001 con “L’ultima sposa di Palmira”) già una quarantina d’anni fa e che, durante tutto questo tempo, prima di diventare libro, ha continuato a scorrere, racconta l’autore nell’intervista che segue, “come un fiume sotterraneo, un grande fiume che io non volevo abbandonare”: la storia delle cinque generazioni Bensalem che ha abitato per più di cent’anni un albero di stanze cresciute una sopra l’altra, “come un tronco di pietre”, racchiusa nel racconto che i muri della casa fanno, nei giorni che segnano il passaggio dal secondo al terzo millennio, all’ultimo componente della famiglia, il giovane medico sordo Babele, prima che la costruzione verticale venga venduta, perché “nulla di quanto le è appartenuto dovrà finire ai forestieri”.
Un romanzo/favola, “L’albero di stanze”, dalle forti suggestioni che possiede la rara capacità di sorprendere e stupire pagina dopo pagina, e attraverso il quale “Lupo – scrive Cesare De Michelis nell’introduzione al volume – traccia un bilancio esistenziale e morale che va oltre il rimpianto, sfidando il futuro con l’entusiasmo del sogno e la concretezza del gesto: certo, molto intanto si è perso, scomparso nei tempi che sono stati, ma altro ci aspetta e la memoria così raddoppia la forza e lo slancio; in fondo il meglio ha radici nel passato da dove veniamo, ma le nuove foglie che crescono a primavera sono protese in avanti, alla ricerca della luce del sole”.
“L’albero di stanze”: un romanzo, per dirla con Cesare De Michelis, “che segna con dolente e sofferta coscienza la conquista di una vita nuova”. Ci racconta come è nato questo suo ultimo lavoro?
«L’idea mi è venuta già una quarantina d’anni fa, cioè quando avevo dieci/undici anni. Volevo da sempre raccontare una storia familiare con cui dare l’immagine di quello che secondo me è famiglia, casa, stirpe, susseguirsi di generazione. Il problema non era tanto cosa raccontare, ma come raccontare. Per pensare al come, ho impiegato tantissimo tempo. Pensare soprattutto alla lingua, che poi è la maniera più rilevante attraverso cui narrare. È chiaro che nel frattempo ho scritto altri libri, ho pensato ad altre storie, ma questa (che per me è importante) scorreva come un fiume sotterraneo, un grande fiume che io non volevo abbandonare».
La narrazione in prima persona, la scelta di far raccontare a Babele la storia di una famiglia (quella dei suoi bisnonni, nonni, prozii e genitori) che ha vissuto cento anni in una casa di stanze una sopra l’altra, è un risultato a cui è giunto dopo aver valutato anche altre soluzioni, altre “voci”?
«Sì, ho pensato a tante soluzioni prima di mettermi a scrivere, addirittura sono stato accarezzato dall’idea di scrivere una storia “normale”, cioè una vicenda di famiglia in cui i rapporti tra le generazioni seguissero la scansione del tempo regolare e continuo. Poi però ho capito che un tipo di racconto fatto secondo queste modalità non mi avrebbe appagato, non mi avrebbe soddisfatto. Cercavo altro. E questo altro è la vicenda di un sordo che ascolta il racconto dei muri. In realtà non è Babele, il protagonista del mio libro. Lui è soltanto uno strumento attraverso cui i muri riferiscono quel che hanno visto».
Ne “L’albero di stanze” si racconta la storia di una famiglia, delle cinque generazioni che per cento anni hanno abitato in una curiosa costruzione verticale, ma il racconto di questo secolo di avventure dei Bensalem si consuma nei pochi giorni che precedono l’ingresso del terzo millennio. Cosa c’è all’origine della scelta del 31 dicembre 1999 come data di chiusura della casa di stanze?
«Ho sempre scritto i miei libri pensato a date epocali: “La carovana Zanardelli” ricordava un avvenimento determinante per la Basilicata, “L’ultima sposa di Palmira” si ambienta durante i giorni del terremoto del 1980 (altro evento straordinario), “Viaggiatori di nuvole” incomincia nell’autunno del 1499. Questo è a ridosso del millennio. Abbiamo aspettato il cambio di secolo con una straordinaria sensibilità, credendo che il cambio delle quattro cifre (da 1999 a 2000), un cambio che avviene ogni mille anni, potesse modificare per sempre alcuni equilibri. Si parlava anche di una specie di apocalisse finanziaria con il millennium bug. A me pareva quasi naturale che la mia storia fosse racchiusa negli ultimi giorni prima che il secolo e il millennio dicessero addio a Babele».
Quanto c’è di Giuseppe Lupo, della storia della sua famiglia, in questo suo romanzo?
«Ovviamente non è un romanzo autobiografico: io non mi chiamo Babele, non sono sordo, non sono medico e non ho vissuto in una casa verticale. Chi scrive, però, non può fare a meno di inserire dentro ciò che racconta qualcosa che rientra nella sfera della sua esperienza».
La lunga lavorazione che il romanzo ha richiesto, il desiderio che ha provato, sin da giovane, di voler costruire una storia familiare ambientata in un’immaginaria cittadina, arrivando anche a scrivere, a vent’anni, un romanzo dal titolo “La casa aperta d’estate” che poi non ha pubblicato, sono solo alcuni degli elementi che mi hanno richiamato alla mente l’opera maggiore di Gabriel Garcìa Márquez “Cent’anni di solitudine”. Ma quali sono, in realtà, se ci sono, i modelli di letteratura ai quali ha guardato per dar vita all’originale e coinvolgente storia della famiglia Bensalem?
«Più che a Marquez, a cui tutti e ormai con frequenza mi accostano, io ho guardato alle “Mille e una notte” e alla “Bibbia”, due libri diversi, ma accomunati dal gusto di intrecciare la storia secondo la struttura degli alberi: tronchi, rami, foglie. Ho sempre voluto scrivere un albero di storie, come sono le “Mille e una notte” e la “Bibbia” appunto».
Secondo molti scrittori un romanzo, una volta pubblicato, appartiene al mondo, ai lettori e non più all’autore. Lei, solitamente, come vive il distacco dai suoi romanzi quando si avviano verso la pubblicazione? Li lascia andare serenamente?
«Di solito non rileggo più ciò che ho scritto non appena viene pubblicato. C’è però una certa diversità rispetto alle esperienze precedenti. Se lei chiede a un genitore a quale dei suoi figli si sente più affezionato, un genitore le risponde che i figli sono tutti uguali. È così anche per uno scrittore e per i suoi libri. “L’albero di stanze” tuttavia è un figlio che sta un gradino diverso rispetto agli altri».
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