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SI chiamava “Lettera 22” e a suo modo fu una rivoluzione. Quella piccola macchina per scrivere – immortalata in un celebre foto-ritratto di Indro Montanelli– fu per il giornalismo italiano quel che molti decenni dopo sarebbe stato il pc portatile. I primi prototipi della “22” uscirono dalla fabbrica Olivetti di Ivrea nel 1950 e cambiarono l’immagine stessa del giornalista in Italia. E contribuirono a rendere popolare una figura, quella dell’inviato speciale, fino ad allora appannaggio dei principi del giornalismo: che si chiamassero Barzini (che il Corriere spedì in Cina con un principe vero, Scipione Borghese), Ojetti, o lo stesso Montanelli. E’ singolare, e ci dice molto dell’uomo Adriano Olivetti, il fatto che in quello stesso anno – proprio mentre dà il via a un piano di espansione internazionale della sua impresa modello – l’industriale apre convalescenziari per i dipendenti, realizza nuovi asili e fonda colonie estive. Ma non solo. Il 1950 è l’anno in cui Olivetti giunge a Matera, una “città anche peggiorata dalla seconda guerra mondiale, che versa in condizioni igienico-sanitarie di forte miseria, con un tasso di mortalità infantile che supera il 40 per cento e un’altissima percentuale di analfabetismo”. E vi giunge con la precisa intenzione di farne “l’occasione di un risanamento materiale e di un riscatto morale”. E di dar vita, in quella che definisce “la capitale simbolica del mondo contadino” a un laboratorio a cielo aperto: un laboratorio che, secondo Olivetti, deve scongiurare il rischio “di tecnicismi e autoreferenzialità” e basarsi, invece, sul “metodo interdisciplinare”, l’unico in grado di “condurre a risultati inediti”. Il che, per inciso, dà l’idea della distanza che separa quella ed altre esperienze dell’Italia post-bellica dai verbosi e spesso includenti piani di rilancio produttivo e territoriale dei nostri anni.
Risultati immediati e inediti, si diceva. Ma come? Seguendo un “principio dialogico, e con iniziative concrete”. Ed ecco la generosa delega di competenze a figure di varia estrazione – non “tecniche”, appunto – scelte attraverso “un fertile confronto tra progettisti, assistenti sociali, ingegneri, scrittori, filosofi, poeti”. Con un obiettivo: “la ricostruzione di luoghi che restituiscano dignità e cittadinanza alle persone”. Ecco ancora, oltre la ricostruzione – che da sola non basta -, “l’educazione al pensiero attraverso riviste come Basilicata e Centro sociale (International Comunity Development nella versione internazionale) che diventano le testate più attive sui temi della politica meridionale, della pianificazione, della scienza sociale.
A ricordarci una storia di cui si immaginava di sapere già tutto, e invece non se ne sa mai abbastanza, è un libro pubblicato di recente dalla Fondazione Adriano Olivetti che ha per titolo, appunto, “Matera e Adriano Olivetti” ed è curato dai ricercatori Federico Bilò ed Ettore Vadini: un volume che ha anche un altissimo valore documentario; e nel quale, per la prima volta, sì dà conto – attraverso la viva voce di alcuni tra i principali protagonisti di quell’avventura – dei dettagli di un’iniziativa che avrebbe cambiato il volto e la storia della città millenaria.
Uno di questi protagonisti fu il materano Albino Sacco. Il quale, nella lunga conversazione con Federico Bilò, rifà il racconto minuto degli esordi, delle difficoltà e degli esiti del progetto olivettiano.
E’, quella di Sacco, anche la storia di un amore e di una scoperta: la scoperta dei Sassi che lui, materano della Civita (“dove vivevano tutti i signori, conti e marchesi”) esplora da ragazzino, di nascosto, avventurandosi, come Huckleberry Finn, in un mondo che gli appare mitico. Scopre così il”famoso vicinato, che consiste in una piazzetta, con le case attorno; una specie di piccola agorà (chi ci abita vive assieme agli altri tutta la vita)”. E decide di “conoscere questa gente e vedere come lavorano i contadini”. “Innamorato dei loro carri, di tutto ciò che facevano – narra ancora Sacco – scappavo di casa anche di notte per vedere quando all’alba partivano per i campi. Mio padre mi ha dato un sacco di botte…Invece di fare i compiti a casa li facevo ai Sassi. E’ stata una grande scuola di vita”.
Il giorno in cui incontra Olivetti, in quel fatidico 1950, Sacco è ormai un esperto dei Sassi. Ha perfino tentato di convincere gli americani, all’indomani della guerra, a realizzare un villaggio vicino Matera per i contadini, da lui progettato con altri amici.“Volevamo che i materani uscissero dai Sassi, almeno dalle zone più malsane – dice -. Ma i Sassi non erano tutti malsani, c’erano anche grotte confortevoli che con un certo tipo di ristrutturazione avrebbero potute essere abitate tranquillamente. Però serviva uno studio urbanistico particolare, anche strutturale, per evitare che i Sassi fossero del tutto abbandonati…”. Ed è a quel punto che Sacco conosce l’industriale di Ivrea. “Una mattina stavo nella piazza principale – racconta – e mi sento chiamare: “Albino, c’è un signore che ti vuol parlare, ti aspetta al bar Adua. Io vado lì, entro e trovo questo signore con i capelli bianchi, tutto in blu, con camicia bianca e cravatta…”.
Il resto della storia è in gran parte noto. Ma il racconto di Sacco ci restituisce la dimensione quotidiana di un immane intervento socio-urbanistico alle prese con gli interessi di un mondo politico che, nell’Italia di quegli anni, ruota intorno allo scontro Dc-Pci: versione domestica dell’equilibrio bipolare mondiale. Sicché accadrà che il progetto promosso da Olivetti (e al quale partecipano studiosi italiani e stranieri, soprattutto americani, di prim’ordine) dovrà fare i conti con i tatticismi dei due maggiori partiti. E se i democristiani (assieme agli americani) sono ossessionati dal timore che dietro i discorsi di quei giovani intellettuali si nascondano idee di stampo marxista, i funzionari del Pci cercano di trarre vantaggio, politicamente, da un piano di riconversione che incide, ridisegnandolo, sullo stesso corpo sociale e produttivo della città (“ma noi non eravamo comunisti – ricorda Sacco -, eravamo peggio: comunitari”).
E così accade che l’idea di fondo dell’intevento sui Sassi venga sostanzialmente snaturato. “I Sassi non dovevano essere svuotati – dice Sacco -, perché quando abbiamo finito di fare lo studio dicevamo che su 18 mila abitanti, 9 mila si sarebbero spostati nei sei villaggi e gli altri 9 mila sarebbero rimasti nei Sassi…E così il tessuto urbanistico e sociale potreva rimanere inalterato. Quando io ho personalmente consegnato questo studio in Prefettura, Emilio Colombo, diventato ministro, ha preso queste carte e ha avuto il lampo di genio di decidere il da farsi a pescindere dallo studio. Il risultato è stato che, praticamente, i Sassi di Matera furono del tutto svuotati dei loro abitanti, chiusi e abbandonati. In questo modo si evitava la ristrutturazione e si aveva accesso a un enorme bacino elettorale. Case nuove per tutti!”.
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