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REGGIO CALABRIA – Pesante stangata per i boss della ‘ndrangheta reggina nella sentenza del processo Meta, che si è tenuto al Tribunale di Reggio Calabria. Tutti condannati gli imputati, con pene che oscillano dai 3 ai 27 anni per complessivi 262 anni di carcere. La decisione del Tribunale è giunta intorno alle ore 13.30, dopo cinque giorni e mezzo di camera di consiglio.
La mano più pesante i giudici l’hanno applicata con Giuseppe De Stefano, che dovrà scontare 27 anni. Ma la quantità di tempo che secondo i giudici dovranno passare dietro le sbarre gli imputati è elevatissima: 20 anni Pasquale Condello; 20 anche Giovanni Tegano e Pasquale Libri; 19 anni e 7 mesi Cosimo Alvaro di Sinopoli; 23 anni Domenico Condello; 21 anni Antonino Imerti; 16 anni Domenico Passalacqua; 10 anni Stefano Vitale; 13 anni Natale Buda; 16 anni Umberto Creazzo; 23 Pasquale Bertucca; 18 anni e 4 mesi Giovanni Rugolino; 3 anni e 6 mesi Antonio Giustra; 3 anni Carmelo Barbieri; 6 anni Antonio Crisalli; 4 anni e 6 mesi Rocco Palermo.
IL DETTAGLIO DELLE RICHIESTE – Il 17 marzo scorso il pm Lombardo ha chiesto circa 400 anni di carcere per i diciotto soggetti alla sbarra: 30 anni per Pasquale Condello, 30 anni per Giuseppe De Stefano, 25 anni ciascuno per Giovanni Tegano e Pasquale Libri. Richieste di pena esemplari per il gotha della ‘ndrangheta, ma richieste durissime anche per gli imputati “minori”: 30 anni per Cosimo Alvaro, il boss di Sinopoli giunto in città per controllare i locali della movida, 30 anni per Domenico Condello. detto “Gingomma”, 30 anni per Antonino Imerti (cugino del “Nano Feroce”), 28 anni per Domenico Passalacqua, 16 anni ciascuno per Stefano Vitale e Natale Buda, 30 anni ciascuno per Umberto Creazzo, Pasquale Bertuca e Giovanni Rugolino, 7 anni per Antonio Giustra, 8 anni per Luciano Chirico (nel frattempo deceduto), 6 anni per Carmelo Barbieri, 10 anni per Antonino Crisalli, 8 anni per Rocco Palermo.
4 GIORNI DI CAMERA DI CONSIGLIO – Il Tribunale di Reggio Calabria, che ha condotto il processo Meta, si è ritirato in camera di consiglio nel primo pomeriggio del 3 maggio. I giudici hanno dovuto valutare le posizioni con il rito ordinario indicate dalla pubblica accusa, rappresentata dal pm distrettuale Giuseppe Lombardo, come i capi della ‘ndrangheta di Reggio Calabria e della sua immediata periferia.
LE ACCUSE FORMULATE DAL PM – Il pm Lombardo nella replica finale è tornato a tratteggiare la figura di comando impersonata da Giuseppe De Stefano, riportando nel processo alcune parti della documentazione acquisita nell’operazione Olimpia degli anni ’90. Da quelle carte, Lombardo ha estratto una informativa dell’ex Sisde frutto di una intercettazione ambientale effettuata nell’abitazione dei De Stefano, contenente un dialogo tra il potente boss di San Luca Antonio Nirta, oggi novantacinquenne, ed il giovanissimo figlio di Paolo De Stefano, poco più che ventenne. Un colloquio cercato dal boss di San Luca, che era stato «garante» dei De Stefano nel conflitto sanguinoso contro il cartello capeggiato da Pasquale Condello, un tempo loro alleato fedelissimo, per il raggiungimento della pax mafiosa. Quel dialogo ricostruito dagli inquirenti, secondo l’accusa, non solo faceva emergere la figura di «capo» di Giuseppe De Stefano, ma evidenziava tutti i sintomi della faida strisciante in atto a San Luca tra i Nirta-Strangio e i Vottari “frunzi”-Pelle, culminata nella strage di ferragosto 2007 a Duisburg. Un conflitto segnato da una lunga lista di omicidi che i De Stefano dovevano contribuire, con la loro riconosciuta caratura criminale, a stoppare «per il bene di tutti». Nel corso del dibattimento, durato circa quattro anni, Lombardo ha posto l’accento sulle figure degli «invisibili» di Reggio, personaggi insospettabili del mondo delle professioni e degli affari, di pezzi deviati dello Stato, complici della ‘ndrangheta, su cui le indagini sono aperte «perché non può esistere una verità che non sia completa».
LA CUPOLA E I PUPARI – Un processo che ironicamente, ma neanche tanto, il pm ha definito “metà”. Si, perchè se da una parte nel procedimento si descrive il gotha della ‘ndrangheta cittadina dall’altra manca la metà che fa riferimento ai pupari. Una super cupola, della quale fanno parte anche i rappresentanti dei boss con la coppola, ma soprattutto le “menti” i padroni veri dei destini di mafiosi e non mafiosi. C’è quindi un “grande manovratore”. Per il magistrato esiste «chi alimentava falsità e tragedie», una cabina di regia che c’era durante la guerra di mafia e che c’è ancora. Sì, perché, a suo dire, «quando la meta si avvicina si innesca il contropotere privato, per abbattere il rischio che le indagini guardino sotto la cute e allora si minaccia, si tenta di corrompere, si isola e si delegittima».
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