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COME se non desse già abbastanza da pensare lo stato comatoso in cui versa la gran parte dei nostri beni culturali, si apprende ora che, a giudizio di alcuni autorevoli rappresentanti dell’Accademia dei Lincei, le facoltà di Archeologia dell’Università italiana rischiano di essere invase da centinaia di professori dai titoli, diciamo così, assai dubbi. La causa? I concorsi d’ateneo non funzionano. O meglio: non servono lo scopo per il quale sono promossi. E non soltanto pe la ragione che, anziché premiare il merito, favoriscono le clientele e il baronaggio, vecchie tare dell’Università: fin qui siamo infatti in una tradizione di cui i nostri atenei non hanno l’esclusiva. E neanche perché il criterio di selezione dei novelli Indiana Jones si basa su fattori puramente quantitativi anziché qualitativi (conta, cioè, più il numero di pagine delle pubblicazioni presentate che il valore della ricerca). Ma soprattutto perché mandano in cattedra un numero spropositato di docenti. Con paradossali conseguenze, a sentire i nostri luminari: “Se i bilanci delle Università dovessero veramente assorbire anche solo una parte di questi abilitati (come potrebbe accadere stando a taluni commi della sciagurata legge Gelmini)- è scritto nella lettera inviata al Ministero dell’Università – il nostro Paese verrebbe a disporre di un numero di professori universitari iuniores di archeologia oltre otto volte superiore a quello dei pari grado nelle Università dell’intera Europa a 27”. Primato invidiabile? Macché. “Si tratta di un dato – è la perentoria conclusione degli Accademici dei Lincei – che getta discredito non solo sulla categoria degli archeologi, ma su tutta l’accademia”.
Insomma: se, come si dice spesso, il nostro passato è anche la nostra ricchezza, c’è da essere seriamente preoccupati. A chi stiamo per affidare il patrimonio che dovrà salvare il nostro Paese?
Interpellato sulle conseguenze di questo genere di concorsi, Antonio De Siena (Soprintendente per i Beni archeologici della Basilicata) correttamente premette: “Il Ministero al quale faccio capo è quello dei Beni culturali, non quello dell’Università. Posso dunque dare un giudizio da cittadino e archeologo, non da professore. E le dico che le perplessità sugli esiti di questo concorso sono enormi. Dalla lettura dei giudizi anche un profano capirebbe che sono stati usati criteri di valutazione contraddittori; e che, spesso, i più meritevoli ne sono usciti svantaggiati. Va anche detto che i giudici sono esseri umani e, in quanto tali, sono soggetti a condizionamenti se non personali almeno ambientali. E poi sa? Il problema è anche nel numero. Una commissione nazionale che si trova a dover valutare 500 e passa candidati: si rende conto? Cinquecento domande, cinquecento curricula, cinquecento differenti profili umani e professionali. Come si fa a dare per ognuno un giudizio accurato?”. Ma non è tutto: “Il livello della ricerca, negli ultimi anni, si è molto abbassato – spiega De Siena -. Sappiamo tutti il perché. Colpa delle varie e contraddittorie riforme alle quali è stata sottoposta l’Università. Ma soprattutto del fatto che quest’ultima subisce le conseguenze dello spaventoso calo di qualità della scuola. Gli atenei si sono ingolfati senza alcuna forma di selezione di studenti che avevano alle spalle i percorsi formativi più disparati. Se a questo si aggiunge la dequalificazione della didattica…”. “Le conseguenze? Sono sotto gli occhi di tutti – conclude il Soprintendente -. Stiamo allevando una classe di professionisti che non sempre sono all’altezza dei problemi posti da un settore delicato e importante per il nostro Paese come quello dell’archeologia”.
Ma torniamo alla lettera. L’atto di accusa che arriva dall’Accademia dei Lincei è firmato da Ermanno Arslan, Luigi Beschi, Nicola Bonacasa, Edda Bresciani, Giovannagelo Camporeale, Filippo Coarelli, Antonio Giuliano, Eugenio La Rocca, Vincenzo La Rosa , Salvatore Settis, Mario Torelli e Fausto Zevi. “ All’indomani della pubblicazione dei risultati delle abilitazioni all’insegnamento universitario – è scritto nella lettera recapitata al ministro dell’Università – riteniamo di dover esprimere tutta la nostra profonda sorpresa per l’operato della Commissione per le abilitazioni della macroarea Archeologia”. C’è innanzitutto una considerazione quaantitativa: “Mentre per la prima fascia sono stati abilitati 69 candidati su 160 – osservano gli Accademici -, per la seconda fascia i candidati idonei sono stati 241 su 553. La scelta fatta dalla Commissione di abilitare un numero spropositato di candidati soprattutto per la seconda fascia appare per molti versi insultante… che getta discredito non solo sulla categoria degli archeologi, ma su tutta l’accademia”.
Entrando nel merito delle valutazioni si osserva che “affidando tutto allo strumento francamente mostruoso delle cosiddette “mediane”, ridicolo artifizio bibliometrico, che rinunzia alla qualità e fa discendere i giudizi dalle “quantità”, si è creata una situazione di estrema gravità: sono stati resi idonei candidati, la cui mediocrità è visibile chiunque”…
Quindi l’affondo: “…da un lato ci si è voluti mostrare generosi a spese della scienza, una scelta palesemente fatta con l’obiettivo di compiacere singoli professori e cordate vecchie e nuove, e finanche intere regioni (una sola scorsa della lista degli abilitati permette di dire a quali regioni ci si riferisce), dall’altro si è seguito il cinico ragionamento, secondo il quale l’assalto alla diligenza provocato dalla straordinaria “liberalità” renderà di fatto non operante l’intero processo abilitativo, vanificando un’attività costata non poco all’Erario, ivi compresi i lauti compensi ai commissari ”stranieri”, di alcuni dei quali si dice fossero addirittura digiuni della lingua italiana… Il buon gusto ci esime dal fare una casistica precisa, ma il semplice confronto delle esclusioni con le inclusioni fornisce un quadro del tutto evidente delle scelte “di scuola”, che hanno privilegiato alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili, e talvolta basate su una concezione miope e ristretta della disciplina, che di fatto ne esclude parti considerate essenziali in tutto il mondo.”
Il problema, a detta dei dodici accademici è che “secondo la legge Gelmini, ai docenti di prima fascia è riservato per intero l’onere di giudicare in abilitazioni e concorsi, e cioè di decidere del futuro della disciplina… Quando, come qui è il caso, una commissione non contenga né studiosi di primo piano e con vasta esperienza internazionale né competenze essenziali (per esempio, di storia dell’arte greca e romana), i commissari possono facilmente cedere alla tentazione di condizionare il futuro della disciplina limitando le scelte di prima fascia ai candidati ad essi affini per ambito di studi (anche ristrettissimo) o per appartenenze e colleganze che nulla hanno a che fare con la scienza”. Il che getta discredito sulla nostra Università in tutto il mondo: “Scelte come queste risulteranno incomprensibili a livello dell’opinione pubblica internazionale”. Infine, la richiesta: “sospendere l’operatività di questa abilitazioni e tornare sull’intera materia delle abilitazioni e dei concorsi con un nuovo provvedimento legislativo, che ripristini il criterio assolutamente prevalente della qualità (e non della quantità) della ricerca”.
a.grassi@luedi.it
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