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ALTO, dinoccolato, il fisico agile e asciutto nonostante i sessant’anni e le rughe che ne solcano il volto stempiato, lo scrittore Erri De Luca fa il suo ingresso nel cortile dell’Istituto Alberghiero di Matera, a bordo di un’utilitaria, quando sono da poco passate le dodici. Al volante c’è il giovane poeta napoletano Gianpasquale Greco con il quale, nel pomeriggio, De Luca terrà una conferenza a Palazzo Lanfranchi. Qui, al Turi, per quasi un’ora, oltre duecento ragazze e ragazzi (studenti dell’Alberghiero e del Magistrale Stigliani), assiepati nella platea improvvisata davanti all’istituto di via del Castello, hanno atteso con impazienza l’arrivo dello scrittore e ora si sciolgono, come d’altronde era previsto dal cerimoniale, in un applauso liberatorio. Accolto al cancello da un gruppo di hostess, De Luca viene preso in consegna dal preside Gianluigi Maraglino e dall’avvocato Beatrice Genchi (che ha organizzato l’incontro); quindi, ancora mezzo stordito dal viaggio, si lascia condurre al tavolo della conferenza mentre un gruppo di allievi del Liceo musicale diretto dal maestro Angelo Basile intona musiche per archi di Antonio Vivaldi. Un’accoglienza da star che dà la misura della popolarità, anche a Matera, dello scrittore; e della quale lo stesso De Luca mostra di stupirsi. “Questo sontuoso benvenuto di Matera mi ricorda che stiamo nel Mediterraneo” esordisce, rendendo omaggio alla proverbiale ospitalità dei materani.
Ma la verità, senso lucano dell’ospitalità a parte, è che De Luca è uno di quegli scrittori in cui, programmaticamente (come spiegherà nel corso dell’incontro con gli studenti), vita e letteratura fanno tutt’uno: ciò che ne fa suo malgrado, e anche in virtù del temperamento schivo, un personaggio. Come dimostra l’appuntamento materano. Ed è un autore, per giunta, che si considera il superstite “non innocente” di una generazione sconfitta: il cui stile fortemente impressivo sembra fatto apposta per suscitare adesione o repulsione. Ma stamattina, nel pubblico adorante, nessuno ha voglia di stare a sottilizzare. Non è un caso, dunque, che alla studentessa che gli chiede da dove egli tragga idee e linfa per le sue storie, lo scrittore risponda: “Io non faccio, e non ho mai fatto altro, nei miei libri, che parlare di quel che mi capita”. Il che, nella fattispecie, appartiene, allo stesso tempo, alla sfera del pubblico e a quella del privato. Come dimostra la biografia di De Luca: dalla militanza, mai rinnegata, in Lotta Continua negli anni ’70, alla solidarietà con i No Tav che gli è costata, di recente, noie con la giustizia. Il tutto unito alla rivendicazione di un’identità mediterranea che, come è ovvio, non ha niente a che vedere con le nostalgie dei neosudisti. “Noi meridionali apparteniamo a una comunità che non potrà mai diventare un’espressione politica – spiega-. Non saremo mai gli Stati Uniti del Mediterraneo. Siamo persone che, nel corso dei millenni, si sono trovate a convivere lungo questo mare mescolando le loro storie e il loro stesso sangue”. “L’Italia – spiega ancora – non appartiene all’Europa. E’ parte integrante del Mediterraneo. A me hanno insegnato, a scuola, che l’Italia è uno stivale: e questa immagine m’è bastata per una cinquantina d’anni. Poi, improvvisamente, ho visto la figura dell’Italia in un altro modo. E allora ho capito. L’ho vista come un braccio. Sì, l’Italia è un braccio che si stacca dalla spalla delle Alpi e dal blocco dell’Europa e se ne va in mezzo al Mediterraneo finendo a mano aperta. E già, perché la Puglia e la Calabria sono le estremità di una mano aperta. Mentre la Sicilia somiglia a un fazzoletto che saluta”.
Ma se non è, e non potrà mai essere, un’espressione politica compiuta, che cosa è l’Italia? De Luca spiega: “Vedete? In noi storia e geografia stanno insieme. Anzi: la nostra storia deriva essa stessa dalla geografia. Tutto quello che ci è successo è venuto fuori da questa forma dell’Italia di cui ho parlato: la forma di un braccio steso in mezzo al mare come un ponte. Peccato che questo ponte non vada più avanti. Che lasci tanto spazio al canale di Sicilia e ai suoi naufragi. E’ questo braccio che ha accolto tutto quello che abbiamo: dal cibo, all’architettura, al teatro, all’astronomia. Alle religioni. Moltissime religioni c’erano qui, una volta. Eravamo il centro di tutti i politeismi del Mediterraneo. E poi, improvvisamente, ecco la notizia decisiva della nostra civiltà religiosa: che esiste una sola divinità, la quale ha cancellato, non riassunto, tutte le altre, estirpandole letteralmente dal suolo e dal cuore degli uomini. Il monoteismo (quello ebraico, cristiano, musulmano) è una novità che prima di impiantarsi ha sradicato tutto quello che c’era prima d’esso”.
E l’Europa? “Dall’Europa non ci è arrivato mai niente – taglia corto De Luca -, tranne gli eserciti che scendevano, proprio di questi tempi, in primavera, attraverso le Alpi. L’unica cosa che ci è venuta dal Nord è il baccalà. Un merluzzo come, da queste parti, non ne avevamo mai visti: ecco l’unico lascito dell’Europa al Mediterraneo che io apprezzo. Noi abbiamo dato loro molto di più di quello che ne riceviamo. Pensiamo alla Grecia. Ha offerto all’Europa un vocabolario: è da lì che vengono i nomi a tutte le cose che abbiamo intorno. E guardate come l’hanno ridotta”.
De Luca quindi spiega in che cosa consista quello che potremmo definire il suo sentimento del Mediterraneo. La cui forza, per lo scrittore, risiede in una memoria che è allo stesso tempo individuale e collettiva: “Sono uno che si trova bene soltanto in mezzo a questo mare. Fuori di qui mi sento spaesato. Qui so come sono fatti gli alberi, le piante, le facce delle persone. E le case. Io so come sono costruite le case, perché ho fatto per anni il muratore”. Parlando di case e di muratura a Matera, non si può non parlare di tufo: un materiale che, d’altra parte, accomuna la città dei Sassi con Napoli. “Io il tufo lo conosco bene – dice De Luca – perché la mia è una città costruita sul tufo. Non so come è fatto il tufo di Matera. Ma il nostro aveva questo di particolare: era un modo diverso di essere muro. I muri servono a separare, il tufo invece, almeno quello napoletano, non voleva dividere. Siccome era pieno di buchi, tutto quello che succedeva dall’altra parte del muro si veniva a sapere subito. E così Napoli era una città che aveva una grande comunicazione acustica interna. Il tufo era la materia che ci teneva insieme, che ci teneva avvinti l’uno all’altro”. “Non so – dice De Luca, rivolgendosi agli studenti materani – se il vostro tufo è così cordiale come il nostro. Ora Napoli è cambiata, ha materiali di costruzione differenti, è diventata più sorda”. Il tufo, continua lo scrittore, “è parte del Mediterraneo, della sua cordialità, della sua accoglienza, della sua condizione naturale di terra di passaggio, di appoggio”. Poi, accennando alla questione degli immigrati: “Quelli che vengono qui… mica vogliono tutti quanti restare da noi. Vogliono semplicemente passare, attraversare questo ponte proteso sul Mediterraneo per sciamare altrove. E questo il nostro destino geografico. Siamo un punto di passaggio”. Alla fine del suo discorso De Luca si rivolge direttamente agli studenti: “Anche voi vi trovate in una parte della vita che è di passaggio. E avete scelto una professione che è quella dell’accoglienza. Avete fatto bene. Questo Paese può produrre solo due cose: accoglienza e cibo. Nessun altro Paese può competere con noi in questo campo. Soltanto noi abbiamo questo territorio, questa cultura stratificata, e siamo i depositari di gran parte del patrimonio dell’umanità.
Non siamo fatti per vendere macchinette. Noi possiamo vendere ciò che conosciamo e abbiamo sempre fatto. Io spero che la classe dirigente del futuro capisca che per il nostro Paese sono strategici i ministeri dell’Agricoltura, dell’Ambiente, della Cultura, non quello della Difesa che compra aerei da guerra che non servono a niente”.
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