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POTENZA – Patrizia Santarsiero non è stata uccisa per errore ma perché «consapevole dell’attività usuraria» del marito Pinuccio Gianfredi, dato che era lei a «conservare in casa i denari oggetto dell’attività illecita».
E’ contenuta in una breve nota che è stata appena depositata a Salerno la tesi della difesa di Saverio Riviezzi, l’ex pugile pignolese accusato del duplice omicidio di Parco Aurora assieme ai vertici dei vecchi basilischi.
Venerdì l’avvocato di Riviezzi, Nicola Cataldo, sarà in aula davanti ai giudici del Riesame assieme alle difese di Gino Cosentino e Carmine Campanella: il fondatore della “quinta mafia” e l’ex braccio destro di Antonio Cossidente, il boss pentito della calciopoli rossoblù e dei rapporti con la politica e i palazzi del potere.
Per Cataldo il mandante dell’agguato di via Livorno del 29 aprile del 1997 potrebbe essere «da ricercare in quegli ambienti della buona società potentina in cui il Gianfredi è stato certamente introdotto dalla moglie». Molto più che nelle dinamiche della mala locale, in cui un gruppo di emergenti, i “basilischi”, cercava di affermarsi sullo storico clan egemone degli affari criminali nel capoluogo e dintorni.
Rispetto all’attendibilità di Alessandro D’Amato e Antonio Cossidente, i due collaboratori di giustizia che hanno confessato di essere stati esecutore e mandante dell’agguato, Cataldo ha depositato tra i documenti a disposizione del riesame anche una lettera a firma del secondo di dicembre del 2010 da cui si rileverebbe che è venuto a conoscenza della collaborazione del primo dall’avvocato che per un certo periodo aveva assistito entrambi. Mentre in seguito avrebbe affermato di aver appreso la notizia nel corso della sua collaborazione.
«Tanto dimostra – per Cataldo – che le collaborazioni del Cossidente e del D’amato non sono state per niente spontanee, soprattutto se si tiene presente quanto già assunto dal D’amato in ordine al fatto che unitamente al Cossidente sono rimasti insieme nella stessa cella al carcere di Bellizzi Irpino, ed hanno parlato dell’omicidio Gianfredi. Se poi si aggiunge che il Cossidente ancora nel 2011 dichiarava di non aver avuto colloqui investigativi, vi è la dimostrazione chiara che le norme di legge sui collaboratori di giustizia, al fine di assicurare la genuinità delle dichiarazioni collaborative, sono state ampiamente violate».
Sulle contraddizioni nelle dichiarazioni di Cossidente agli investigatori l’avvocato aveva già evicenziato nel ricorso al riesame come in un primo momento fosse stata esclusa la partecipazione di Riviezzi all’organizzazione dell’agguato, salvo rettificare in un secondo momento con «nuovii interrogatori, dopo precisazioni e contestazioni, e nette prese di posizione da parte del Cossidente, condotti in contemporanea da due pm dell’antimafia e da un vicequestore non facenti parte dell’ufficio del Tribunale di Salerno ». Abbastanza per «ritenere che si voleva raggiungere un certo risultato». Da parte dell’accusa.
Anche sul movente Cataldo si era soffermato a lungo in quanto il gip del Tribunale di Salerno ha accolto la spiegazione del Cossidente per superare i contrasti rilevati dal gip Romaniello, che per questo 4 anni fa aveva respinto la richiesta di arresti per Riviezzi e Campanella avanzata dai pm di Potenza, prima di inviare le carte per competenza speciale ai giudici campani (nel corso delle indagini sul duplice omicidio è stato coinvolto anche il marito del magistrato che all’inizio si è occupato del caso). Per Maria Zambrano sarebbe credibile che l’agguato sia stato di un gesto di sfida lanciato dai nascenti basilischi ai rivali dello storico clan operante nel capoluogo. Come pure il messaggio mandato in maniera preventiva, in carcere, al boss Renato Martorano chiedendo se gli «interessava» la vittima, per «palesare» la responsabilità per quanto stava per accadere. «Si sarebbe trattato di una generica intimidazione preventiva ».
Per Cataldo invece «tanto è solo ridicolo perché nei gruppi malavitosi mafiosi vige soprattutto l’omertà, e poi non si da alcun preavviso agli avversari che altrimenti non solo preparano la difesa, ma anche le contromosse per colpire per primi. Nel caso poi si sarebbe addirittura avuto l’assenso del gruppo rivale, il che vuol dire solo che il Gianfredi non faceva parte di alcun gruppo, che era solo un usuraio al quale quindi si voleva dare una lezione per ben altri motivi».
Il fascicolo sul duplice omicidio di Parco Aurora con le confessioni di D’Amato e Cossidente era arrivato a Salerno agli inizi del 2011 ma sono occorsi 3 anni prima che arrivasse la svolta tanto attesa.
In precedenza, per l’esattezza nel 2004, erano già finiti in carcere Antonio Cossidente e Claudio Lisanti, che oggi non può difendersi perché è morto a gennaio dell’anno scorso, ma è indicato come il secondo sicario del “gruppo di fuoco” entrato in azione.
Con Cossidente ha raccontato di aver preso parte all’agguato il melfitano Alessandro D’Amato, di professione camionista ma di fatto braccio armato del clan Cassotta. Per D’Amato, stando a quello che lui stesso ha dichiarato, quella di Parco Aurora sarebbe stata la prova del fuoco, mentre sei mesi prima Claudio Lisanti aveva già compiuto un altro agguato assieme a Carmine Campanella.
Secondo i pm di Salerno a distanza di meno di un anno Campanella si sarebbe limitato a effettuare dei sopralluoghi, come ammesso anche da Antonio Cossidente, che ha confessato di aver organizzato il tutto perché si era deciso di «mandare un segnale» al clan egemone nel capoluogo.
Dato che i loro esponenti principali all’epoca si trovavano in carcere la scelta del bersaglio sarebbe ricaduta su Gianfredi considerato l’«eminenza grigia» del gruppo, mentre la morte della moglie Patrizia Santarsiere sarebbe stata soltanto un errore, dovuto alla mira di Lisanti col fucile a canne mozze utilizzato per l’occasione.
l.amato@luedi.it
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