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di FRANCESCO MOLLO
Parto con un bagagliaio carico di attrezzature video e la testa piena di cliché: vado a intervistare la moglie di un collaboratore di giustizia, e cosa vorrò sentirmi dire dalla donna di un ex boss che ha saltato il fosso, se non le solite manfrine che tentano di giustificare lo scambio con lo Stato? Porto con me mia moglie, da usare – lo ammetto – come grimaldello: conto sulla solidarietà femminile per vincere possibili resistenze di Paola Emmolo ad aprirsi a un estraneo.
Prima di partire chiamo Luigi Bonaventura per confermare l’appuntamento, e lui ci invita a cena; «se non vi offende» mi dice. A cena da uno che stava per essere reggente di una delle cosche più potenti della Calabria: la Vrenna-Bonaventura di Crotone? Quando finalmente arriviamo nella città che ospita molti collaboratori e testimoni di giustizia sotto programma di protezione è tardi; l’ex boss manda il cognato a prenderci, e ci conduce nell’appartamento disadorno al quinto piano di uno stabile anonimo.
Non ricordo più i minuti di iniziale disagio e tutte le parole dette quella sera, ma ricordo bene il diluvio di emozioni provate nel sentire dentro di me crollare tutti i pregiudizi che nemmeno credevo di avere. Eppure – ci dicono come a volerci riconoscere un premio – «siete i primi ad aver avuto il coraggio di venire qui. E non potete immaginare cosa significhi per noi».
Al tavolo c’è una donna alla quale non saprei dare un’età, se non sapessi che ne ha poco più di trenta. Sotto i segni dalle fatiche di quella vita le si riconosce in volto quella bellezza del Sud. C’è un uomo che ha la mia età e mostra dieci anni in più a furia di guardare di traverso il mondo. E ci sono Salvatore, dieci anni, e Sirya Rachele, sei. La piccola parla poco, ma con grazia disarmante: ha preso un vago accento della città in cui vive e «da lì – dice – non andrebbe mia più via, perché ha tutte le sua amiche e della Calabria non ricorda niente». Il grande è un comico nato; parla senza sosta ed è incuriosito da tutto: è a lui che tocca – per richiesta del padre – di ringraziare il Signore per la pizza che ci sta dando per cena. «Francesco, posso darti del tu?» mi chiede appena può; e poi mi domanda cosa penso dei buchi neri e del big bang. Non ne so molto, sto per rispondere e lui, che già immagina la mia ignoranza, aggiunge: «Secondo me il mondo non è tutta opera di Dio» e prima di finire la frase la pizza sta per volargli giù dal tavolo per via di un suo movimento sconnesso. Così non perde occasione per una battuta: guarda il soffitto e dice «Dio, stavo scherzando». Poi mi chiede della Calabria, che ancora un po’ricorda. Gli parlo del mare di Isola Capo Rizzuto e della gente che si batte per farla tornare una terra splendida. E lui si sento orgoglioso.
Luigi sembra un vecchio leone ferito che gioca con i suoi cuccioli e che sogna di tornare un giorno nel suo Serengeti; Paola mette la dolcezza in ogni gesto; li accarezza sempre, li rassicura: è forte ma non sa chi è; trema di paura e di dolore al pensiero che per dare un futuro libero ai suoi bambini li ha dovuti estirpare, espropriare di ogni legame con le origini; privare di quella sicurezza che la famiglia familista del Sud – tanto più se amorale – sa dare più di ogni altra cosa. Privare persino dell’identità: oggi portano un nome di copertura; fra un anno, quando il programma di protezione sarà terminato, potrebbero dover tornare al loro cognome originario. E chi glielo spiegherà il perché, ai compagni di scuola?
Dopo che i bambini vanno a letto, anche se già sanno tutto del padre, Luigi – senza indugiare troppo, con un certo ribrezzo e con la dignità di chi non reclama nessuna giustificazione – evoca la sera in cui ritornò a casa dopo il suo primo omicidio, nel dicembre ’91 (quando io, suo coetaneo, ero studente al primo anno di università) e il padre si congratulò con lui per averlo commesso perfettamente. Tanto perfettamente che se non fosse stato lo stesso pentito ad autoaccusarsi di quell’esecuzione, ancora oggi l’omicidio di Rosario Villirillo sarebbe di autore ignoto.
«Io – aggiunge guardandomi negli occhi – non ce l’avrei fatta a complimentarmi con mio figlio per aver ammazzato un uomo». Per questo ha iniziato a collaborare con la giustizia. Ogni giorno è davvero dura, racconta: il servizio di sicurezza – che sicuro non è, visto che sono stati avvicinati da alcuni esponenti dei clan coinvolti nelle operazioni come Heracles frutto delle rivelazioni di Luigi – ti toglie ogni libertà e ogni dignità umana. «Ma non mi pento della mia decisione. Solo così potrò dare un vero futuro ai miei figli».
Sirya vuole fare la ballerina o la veterinaria; o forse entrambe. Salvatore diventerà chissà un scrittore, oppure un giornalista, «anche se da grande – dice – vorrebbe fare anche l’attore, l’archeologo, l’esploratore». Oppure ogni altra cosa che gli verrà in mente. Penso fosse scontato per un bambino di dieci anni sognare quel che vuol fare da grande e da che parte stare nel mondo; ma non lo è affatto, se a sognare è il figlio di un boss di ‘ndrangheta predestinato a una vita, e a una morte, da boss di ‘ndrangheta.
«Ecco qual è la vera libertà» ci dicono Paola e Luigi a fine serata: «lasciare ai nostri figli la possibilità di scegliere la propria strada. Di sognare il proprio futuro».
L’idea di portare mia moglie e di accettare l’invito a cena è stata buona, mi dice alla fine Luigi. Quando il mattino dopo torniamo per la video-intervista, lo capisco: Paola ci accoglie infatti con il sorriso che si offre agli amici che non si rivedono da tanto. Davanti alla telecamera, per la prima volta nella sua vita, apre il cuore in modo assoluto. Racconta di aver saputo chi fosse davvero suo marito – fino a quel momento mai stato in carcere – solo dopo l’inizio della collaborazione con la giustizia, quando lui stesso si autoaccusa di gravi delitti per consentire ai magistrati di fare luce su vent’anni di storia nera del crotonese; la sua amicizia con Lea Garofalo e la medesima esistenza raminga e la fiducia che un giorno possano tutti tornare nella terra promessa.
Sono convinto che lo sconforto per le difficoltà della vita quotidiana hanno minato la forza d’amino che le ha consentito di dare coraggio al marito, anche nei giorni in cui Luigi ha fatto i peggiori pensieri che un uomo possa fare per se stesso. E perciò le chiedo «Si può davvero dire di no alla ‘ndrangheta?». Quando finiamo di registrare, Paola ha gli occhi pieni di lacrime e trema (stavolta) di emozione. E non so fare altro che abbracciarla, e torno in Calabria con una speranza nuova.
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