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di FULVIO LIBRANDI
Il rituale indecente della non rabbia, l’incapacità della regione di elaborare un lutto collettivo anche davanti alla morte di Domenico, un bimbo di undici anni è, ad oggi, il tratto in assoluto peggiore dell’identità calabrese. Ogni mese, ciclicamente, sulle prime pagine dei giornali viene lanciato l’allarme perché la Calabria, di volta in volta, brucia, frana, s’inquina, spara, minaccia, ma la nostra disgrazia non sta in questa sequela di nefandezze, la nostra disgrazia è nella capacità di rimanerne emotivamente immuni. Per Domenico non ci sono lenzuola alle finestre, non ci sono bandiere a mezz’asta, non c’è un funerale in diretta televisiva, non c’è un minuto di raccoglimento a scuola. Non c’è la commozione che abbiamo provato ai funerali dei militari caduti a Kabul. Non c’è nient’altro che questo nostro insignificante stringerci nelle spalle. Possiamo discutere le motivazioni che hanno prodotto questa rassegnata assuefazione – cento libri ne parlano e altrettanti potremmo scriverne, – ma non cambia la sostanza: oggi noi calabresi siamo proprio così, inerti e soli. È impossibile, in questo lembo di Meridione, distinguere i valori che trasformano gli abitanti di una regione in una comunità, quei valori che fanno pensare che sia la terra e la sua tradizione ad abitare in noi e a renderci un corpus; viviamo invece una Calabria privata, con una dose di cinismo e di fatalità che ci sono necessari quanto l’aria. Non possediamo una grammatica del dolore condivisa, una lingua, un codice, un dannato dialetto per raccontarci l’assurdità della vicenda di questo ragazzino, moro e un po’ grassottello, un amore di figlio per come appare nelle foto dei giornali, che è stato colpito da una scarica di proiettili mentre giocava a pallone, è rimasto tre mesi in coma e poi è morto. Non abbiamo strumenti per scandalizzarci insieme. Il copione che seguirà la vicenda del piccolo Domenico è questo: per un po’ leggeremo di tanto in tanto sui giornali regionali articoli densi di indignazione e auspici affinché le coscienze critiche si sveglino. Il rumore che produrrà questa discussione, ivi compreso questo mio articolo, sarà più o meno simile al rumore che fanno i pesci sui fondali vicino alle “navi a perdere”, un ovattato silenzio, e sarà il preludio del nuovo silenzio che verrà. Credo che il rispetto per questa amarissima vicenda ci imponga di discuterne in uno spazio pubblico come le colonne del giornale. Questo non ci salva, ma ci consente, parlandone, di provare a farci carico collettivamente di una morte che appartiene a tutti, che, se ha senso ancora parlare di società, deve necessariamente appartenere a noi tutti. Zittire il silenzio, almeno oggi, è un compito che ci sta davanti come un imperativo. Per professione mi occupo di tradizione e di trasmissione dei modelli culturali, e credo ancora, nonostante tutto, che processi di inculturazione positivi possano aiutare a costruire futuro e a cambiare la percezione che abbiamo del mondo e di noi stessi. Non ripeterò le considerazioni fatte quando, su queste colonne, proposi la realizzazione di un “Museo della ndrangheta”, ma dirò solo che si avverte l’esigenza di un’agenzia educativa, complementare alla scuola, in grado di trasformare in pedagogia l’assurdità della morte di Domenico. È incredibile come, in tutta la filiera educativa dalle elementari alla laurea, il complesso problema della ‘ndrangheta entri nei curricula scolastici solo marginalmente. Eppure un processo di immunizzazione, che passa dall’acquisizione graduale di consapevolezza, dovrebbe forse iniziare già in giovanissima età, ed essere perseguito, in maniera permanente, nel corso dell’iter scolastico. Dove apprende oggi un bambino il punto di vista dell’Istituzione nella lotta contro la criminalità organizzata? In una scuola non preparata a questo scopo? Attraverso gli occhi bassi dei genitori? Magistrati e forze dell’ordine dicono sempre che non si otterranno risultati contro la ‘ndrangheta se non vi sarà un cambiamento culturale. Ma cos’è un cambiamento culturale? Un dono del cielo o un programma? Se è un programma deve essere un programma concreto, ed è bene discuterne concretamente. Il dolore vivo di questa vicenda dovrebbe diventare, concretamente, strumento per insegnare nelle scuole, nelle piazze, nelle televisioni, di cosa si parla quando si parla di ‘ndrangheta. La vita breve e la morte di Domenico dovrebbero diventare materiale per lezioni da tenere nelle aule. Le foto dei suoi compleanni andrebbero mostrate nelle classi, e andrebbero mostrate anche le foto bianche, quelle che ritraggono la vita che Domenico non vivrà. Le contraddizioni dell’organizzazione criminale che andrebbero illustrate nei diversi procedimenti educativi sono moltissime: gli ‘ndranghetisti parlano di rispetto per le donne ma le uccidono anche per ritorsione a uno scherzo; sostengono di dare lavoro e invece sfruttano la manovalanza e avvelenano l’economia della regione; presidiano il territorio ma consentono che si affondino bidoni radioattivi vicino alle sue coste. Ma tra queste contraddizioni la morte di Domenico è la più straziante e la più scandalosa, in quanto pone l’interrogativo drammatico che attraversa tempi e latitudini: «Perché muoiono i bambini?». In Calabria non manca la coscienza della negatività della ’ndrangheta, ma ne manca la coscienza collettiva. Non mancano i messaggi, manca la possibilità di recepirli insieme. Da noi, per costruire un discorso comune, occorre partire dalle particelle elementari, prima ancora del messaggio bisogna costruire occhi e orecchie in grado di guardare, di ascoltare, di discernere. Senza di questo nessuno chiederà alla politica di essere meglio di quello che è; e le parole dei magistrati, di quella parte della chiesa che si impegna, di tante organizzazioni sul territorio, sono destinate a continuare a cadere nel vuoto. Spero che, tra lo stucchevole caos del posizionamento politico per le elezioni prossime venture e le radioattive notizie dai nostri fondali, qualcuno voglia provare a parlare costruttivamente di cambiamento e di modelli concreti per perseguirlo. Secondo me è un modo per continuare a parlare di Domenico. So che in tanti diranno che da noi cambiamento è sinonimo di utopia, e so che il mantra “su tutti i stessi” è la formula che maggiormente esemplifica la filosofia della regione. Eppure credo che siamo obbligati, per la nostra dignità, a proporre e perseguire un cambiamento come se fosse lì da venire, quant’anche fossimo convinti che nessun cambiamento sarà mai possibile. L’alternativa a questo è lo status quo: una regione dove l’appartenenza, la tradizione, la dimensione collettiva, la famosa identità, trovano tratti costitutivi comuni solo, come dicevo all’inizio, nella vigliaccheria della non rabbia e della rassegnazione, e se così è, come dimostra il fatto che non sappiamo nemmeno piangere insieme per Domenico, significa che l’unica manifestazione popolare che oggi potrebbe correttamente rappresentare la tradizione calabrese è la sagra dell’indifferenza.
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