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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Questa volta la cattiva notizia non viene dalla nostra regione, né vede protagonisti calabresi. Il luogo è il Canale di Sicilia, dove si è consumata nei giorni scorsi l’ennesima tragedia di immigrati che tentano di raggiungere clandestinamente il nostro Paese, ritenuto illusoriamente approdo di sicurezza e di felicità, mentre si rivela tragicamente occasione di disperazione e di morte. Si tratta di 73 eritrei, vittime della ferocia di chi li ha abbandonati in mare, lontano dalla costa italiana, presentata come vicina, e di quanti invece di soccorrerli se la sono cavata con qualche bottiglia di acqua abbandonandoli disinvoltamente al loro destino. I cinque superstiti raccolti dal gommone, lasciato andare poi alla deriva, hanno raccontato di tale inganno criminale e di tale feroce egoismo, dichiarando anche che i mancati soccorritori parlavano tra di loro non in italiano. Ma non possiamo ritenerci certo soddisfatti di questa mancanza di chiamata di correo. Il racconto dei superstiti ha suscitato reazioni contrastanti: da una parte, alcuni hanno espresso incredulità, per cui questi cinque sopravvissuti hanno subito, oltre alla violenza di chi li ha lasciati andare alla deriva, dopo aver sfruttato il loro desiderio di espatrio clandestino, e quello dei mancati soccorritori, anche la violenza della sottrazione della credibilità, per cui le loro parole sono giudicate inattendibili. Dall’altra parte, queste parole hanno incontrato fiducia e credito, ad esempio dagli appartenenti alle organizzazioni umanitarie che si sono fatti carico della loro accoglienza; del resto, perché avrebbero dovuto inventare tanti particolari e con quale vantaggio? L’episodio è di tale gravità che, opportunamente, il presidente della Repubblica ha chiesto ai responsabili delle Istituzioni un dettagliato resoconto di quanto avvenuto, anche se è molto improbabile che questo Governo, che si caratterizza per aver approvato sollecitamente il “Pacchetto crudeltà” erroneamente denominato “Pacchetto sicurezza”, possa diventare portatore di verità, generale e specifica. Il punto, a mio avviso, non è tanto se questo drammatico racconto sia totalmente vero in ogni particolare, quanto che esso è totalmente verosimile. Si possono trattare, cioè, uomini come noi in tale maniera, magari dopo aver elargito loro qualche bottiglia di acqua. Gli israeliani, ricordiamo bene, impedirono l’accesso ai pozzi ai palestinesi della striscia di Gaza, mentre li utilizzavano con assoluta tranquillità per coltivare i propri orti. I mancati soccorritori del Canale di Sicilia sembrano, in questo caso, più umani. Il fatto è che gli immigrati, reali o aspiranti tali, non sono considerati uomini “come noi”. Nella nostra temperie culturale e politica essi sono fantasmi, individuali o collettivi, in quanto concretazione di una alterità cui viene sostanzialmente negata ogni comune umanità. «Pietà l’è morta» recitava un antico canto partigiano contro la guerra, elaborato su i monti cuneesi; su Facebook è apparso fino a qualche giorno fa un gioco, “Rimbalza il clandestino”, che presentava tra i proponenti un figlio di un ministro della Repubblica, tal Bossi, che mutua dal padre l’arroganza e la dimensione becera, ma non certo la furbizia politica. Il gioco ha coinvolto però non solo il figlio sciocco, ma lo stesso Umberto Bossi, il capogruppo alla Camera, Roberto Cota, e l’ex parlamentare leghista, Erminio Boso. L’Arci ha annunciato che presenterà un esposto alla Procura contro Cota e il ministro Bossi colpevoli di «istigazione all’odio e alla violenza razziale». Sparito il giochino, è apparso, sempre su Face book, a cura della Lega Nord, sezione di Mirano (Venezia) un manifesto che proclama: «Immigrati clandestini: Tortulali! È legittima difesa». Parecchi anni fa, uno scrittore americano, “correttamente” bianco, si dipinse di nero per sperimentare dall’interno quali fossero le condizioni dei neri. Scoprì progressivamente, non senza sorpresa, che non veniva più visto, che lo sguardo dei bianchi lo oltrepassava, “come se” non ci fosse. Descrisse tale esperienza in un libro che ebbe grande successo e che si pone, a mio avviso, come un’insostituibile testimonianza dell’invisibilità della alterità. Invisibilità che in tanto permane perché offre a coloro che la nutrono il vantaggio di una maggiore coesione, di una comunità-del-noi assunta senza alcun dubbio come superiore, atta perciò a rafforzare negli appartenenti a essa il senso di supremazia su tutti gli altri, esterni e soprattutto “altri”, appunto. Il “Pacchetto crudeltà”, di cui ho parlato, è causa ed effetto, insieme, di tale emarginazione radicale degli immigrati, confinati in una sfera di subumanità, cui si può persino “dare” qualcosa, purché li si tenga debitamente lontani da una temuta uguaglianza. Si celebra in tutto ciò, nonostante tante solenni dichiarazioni e tante clamorose, retoriche ‘feste’ degli immigrati, il clamoroso, storico fallimento dell’etica religiosa e di quella laica, dell’amore cristiano e della triade della Rivoluzione francese, mentre il termine “libertà” è stato poco liberamente sequestrato per designare il Partito del Padrone, che si distingue per autocrazia e arroganza. Nonostante tutto, però, c’è ancora spazio per la riaffermazione di queste etiche, di questa triade, che hanno costituito comunque tappe significative della nostra civiltà. Uno spazio però da conquistare con fatica e ferma determinazione.
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