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Lilli Gruber e Matteo Renzi

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Lilli Gruber è – par excellence – la padrona di casa del salotto privato più esclusivo e allo stesso tempo domestico della televisione italiana, ovviamente su La7, riconfermata da Cairo per gli eccellenti risultati.

Ed è vero: Lilli adora usare con pronuncia francese l’espressione “par excellence” quando vuole rendere omaggio a qualcuno. Solo che, dài una, dài due e dài tre, alla fine fa un po’ ridere. In genere quando si vuole piantare una coltellata nella schiena di qualcuno, si parte dalle lodi sperticate.

Lilli Gruber è una giornalista intelligente e brava che ha saputo mettere a buon uso la sua doppia identità non solo linguistica tedesca e italiana per inchieste di prim’ordine sul mondo tedesco, anche se non si era resa conto che la caduta del muro di Berlino era stata annunciata da Gorbaciov al Bundestag sei mesi prima, dopo il celebre “Tear down that wall” (“Butti giù quel muro”) di Ronald Reagan.

Ha scritto ottimi libri come l’ultimo sul Sud Tirolo e vive una vita sociale che si specchia in quella televisiva, e viceversa. Da oltre dieci anni non guardo la televisione italiana se non costretto, dunque ho passato molte ore sul sito della Sette a vedere molte puntate di Otto e Mezzo, programma che Gruber conduce da sola ma che firma con Paolo Pagliaro.

L’editoriale di Paolo Pagliaro è la spina dorsale del programma: numeri, fatti, documenti, confronti, grafici, tabelle. Nessuno obietta davanti ai suoi editoriali. Lilli Gruber, nulla di male, ha una particolare inclinazione a soccorrere il vincitore ciò che mostra la prevalenza del Dna italiano ben descritto da Ennio Flaiano.

Secondo: è comicamente sottomessa a Marco Travaglio che trasmette dalla sua camera da letto, o studio, forse anche doccia. Travaglio dice quel che vuole e poi lo approfondisce, lo riassume, lo scannerizza e lo declama con il finale indignato.

Lilli lo ascolta con devota distrazione mentre non si raccapezza fra gli appunti e quando il travaglio è finito, ripete le ultime parole del direttore del Fatto, rigirandole a un ospite in studio. Supponiamo che Travaglio abbia concluso dicendo: “La Vispa Teresa avea fra l’erbetta al volo sorpresa gentil farfalletta”, la Gruber assume di colpo un’aria grave, si mette di profilo a 35 gradi con longitudine e latitudine controllate (è titolare di un body language che ha fatto scuola) e si rivolge a un ospite: “Professore, davvero, come dice Marco Travaglio, la Vispa Teresa aveva trovato la farfalla, oppure è vero, come dicono altri, che era già volata via?”.

Panico.

Oppure, scene di alta drammaturgia salsa banale. Io ho pubblicato per Aliberti cinque anni fa un libro intervista con Carlo De Benedetti in cui l’editore di Repubblica raccontava di aver licenziato Eugenio Scalfari dopo averlo salvato più volte dalla bancarotta e come non ne potesse più di lui, tanto da strappare dalla mattina alla sera Ezio Mauro alla Stampa per insediarlo a Repubblica.

De Benedetti da anni manifestava un sostanziale disprezzo per Scalfari di cui non sopporta più nemmeno gli editoriali domenicali. Oggi lo stesso De Benedetti va dalla Gruber, ridice le stesse identiche cose, ed ecco che improvvisamente si decide di far finta che si tratti di una scandalosa novità. Ed ecco che nel salotto di Otto e Mezzo si monta un atto unico sulla lesa maestà di Eugenio il quale, decano in civetteria, si compiace giustamente di essere un “vegliardo” (vegliardo par excellence) il che dimostra che è perfettamente in gamba a novantacinque anni senza bisogno che si celebrino per lui le esequie per lesa maestà.

La veglia è melensa perché siamo in Italia dove Eugenio Scalfari non è celebrato e stimato per essere stato il geniale inventore di un giornale e di un intero sistema di comunicazione, ma deve essere invece celebrato come poeta, santo, eroe, navigatore, filosofo, veggente, reggente papa, romanziere e ideologo anche quando si riduce a lodare Zingaretti, per espiare il delitto di aver detto di preferire Berlusconi a Di Maio. Il salotto è collaudato ed ha i suoi ospiti rotanti a parte il residente Travaglio, ma si avvale del frequent influencer Cacciari, il ragionevole Antonio Padellaro, e poi un leghista di qua, una professoressa di là, uno che ha scritto un libro e se capita, un buco nero da lasciare all’oscuro. Eccoli: sono in onda per celebrare la foto sensazionale del buco nero oltre a una giornalista di Repubblica, il professor Carlo Rovelli che spiega benissimo che cos’è un buco nero.

Ma Lilli ripete (pensando di interpretare il pubblico) di non essere assolutamente in grado di capire, è negata, si arrende, anche se si tratta solo di ascoltare e sente l’irrinunciabile bisogno del parere di un teologo che pasticcia un po’ fra etica e fisica, sicché ciò che Rovelli aveva chiarito, torna di nuovo oscuro, un buco nero.

Lilli Gruber recita la parte di chi non capisce, pensando forse di essere popolare e democratica e questo ci sembra il punto più debole. La Gruber finge, simula l’attenzione quando invece è distratta, sorvola quando farebbe bene ad approfondire e si fa sottomettere dai prepotenti amici resistendo in modo un po’ scomposto ai prepotenti non amici. Il suo salotto è una prima classe da crociera e Lilli tende a non scavare e si trova comoda solo quando può ripetere le ultime parole di uno per consegnarle al successivo.

Però, quando si presenta il cinghialone Salvini, gossipato per le sue vicende amorose, ecco che Lilli si trasforma in una finta cronista petulante e dice cose che non le appartengono, gli chiede di mostrarsi nudo, di raccontare i suoi baci e sbatte tavolo la copertina di Chi. Salvini allora s’incazza e risponde che non è lì per parlare dei fattacci suoi, mettendo fine ad al gioco che la Gruber ha avviato senza saperlo condurre.

Lilli Gruber si sente insicura fra quelli che non fanno parte della sua ristretta famiglia cui è collegata attraverso relazioni sociali, editoriali e amicali. Non è in grado di impersonare l’intervistatrice incalzante, non sta sulla palla e quando prova ad andare contropelo le viene male. Sicché si lascia angariare senza ritegno dal Travaglio di turno, in particolare da Travaglio che considera Otto e Mezzo un’appendice. Sgarbi frequenta con galanteria perché a Lilli Gruber, sia detto a sua lode, piace stare al mondo con gente di mondo.


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